Il film In Between – Libere disobbedienti innamorate racconta le storie di tre ragazze palestinesi a Tel Aviv, sospese tra due mondi e in lotta per attraversare tante invisibili e insidiose frontiere sociali
Di Gabriella Grasso
Peccato per il titolo italiano. Perché Libere disobbedienti innamorate non restituisce minimamente il senso dell’originale Bar Bahar, che in inglese trova una traduzione abbastanza coerente con In Between: nel mezzo. Né da una parte, né dall’altra. È la condizione interiore che vivono le protagoniste di questo film, tre ragazze palestinesi che si sono trasferite a Tel Aviv per cercare il proprio posto nel mondo, allontanandosi dalla cultura tradizionale nella quale sono cresciute, senza però essere pienamente integrate nella città israeliana.
«Questo è un film sui palestinesi che non vivono nella West Bank o a Gaza: c’è un milione e mezzo di noi che abita in Israele. Molti giovani si trasferiscono a Tel Aviv e lì rompono le regole della cultura a cui appartengono. Ma il cosmopolitismo di quella grande città non è reale: persiste una forma di razzismo nei loro confronti, che fa sì che si trovino a vivere nel mezzo, In Between appunto», spiega la regista Maysaloun Hamoud (palestinese, nata a Budapest ma cresciuta in un villaggio a nord di Israele) presente alla prima proiezione milanese del film.
La relazione tra israeliani e palestinesi, in realtà, resta ai margini della narrazione.
E alla domanda se questa scelta non sia imputabile al fatto che il produttore, Shlomi Elkabetz, sia israeliano, la risposta di Hamoud è netta: «Assolutamente no. Schlomi è un israeliano, ma di quelli buoni: non è un sionista. Mi ha lasciato del tutto libera di raccontare questa storia a modo mio. E io volevo che, per una volta, i protagonisti fossimo noi, i palestinesi. Non volevo mettere gli israeliani e il conflitto al primo posto: quasi tutti i film realizzati nella regione affrontano quel tema. Io volevo parlare d’altro».
La regista è molto decisa anche nel negare che le vicende che racconta riguardino solo le palestinesi: «Non siamo diverse dalle altre donne, non credo che nel resto del mondo la situazione femminile sia differente. Se vieni da una società conservatrice, con vincoli familiari forti, quando rompi le regole vieni etichettata come “prostituta”. Le donne che rifiutano il ruolo tradizionale di mogli e madri hanno bisogno ovunque di molto coraggio per scegliere di vivere da sole e andare contro la realtà che le circonda», dichiara.
Le protagoniste Leila, Salma e Nour, il coraggio di compiere scelte di rottura lo trovano, ognuna a modo proprio. Per definire il personaggio di Leila, che lei impersona, l’attrice Mouna Hawa (presente anche lei alla proiezione milanese) usa l’aggettivo inglese unapologetic: qualcuno che rifiuta di giustificarsi per il proprio modo di essere. Laila è una bellissima avvocata originaria di Nazareth, che di notte si immerge nella realtà underground di Tel Aviv, tra musica elettronica, alcol e droghe. Respira la vita come aspira il fumo della sigaretta (o della canna) che tiene sempre in mano: con un’intensità che confina con la compulsione.
Una sera incontra un uomo che, finalmente, le fa sentire il battito del proprio cuore. Ziad è palestinese, ma ha vissuto a NY dove ha lavorato nel cinema. Sembra libero come lei. Ma è solo apparenza, perché anche lui, come quasi tutti gli uomini del film, è prigioniero del ruolo che la sua cultura gli impone. «Tu sei come gli altri, vivi nella menzogna», gli rinfaccia Leila. Ziad le risponde: «Tu credi di poter cambiare il mondo in un giorno? È questa la nostra realtà».
Forse non in un giorno. E forse non il mondo intero. Ma che Leila, Salma e Nour vogliano modificare almeno i percorsi di vita che qualcun altro ha tracciato per loro, è indubbio.
Salma appartiene a una famiglia cristiana di Tarshiha, un villaggio della Galilea. È lesbica, lavora nella cucina di un ristorante (finché non litiga con il capo, israeliano, che le intima di non parlare in arabo con i colleghi, perché alla clientela non piace), quando può fa la dj ai rave. Il piercing al naso e l’abbigliamento poco femminile sembrano turbare i suoi genitori solo quando, ciclicamente, la invitano a cena per presentarle qualche aspirante marito. Allora le chiedono di essere “presentabile”. Lei non si ribella: ogni volta torna al villaggio, indossa un abito e si presta alla farsa. Tanto sa che l’indomani tornerà al suo appartamento di Tel Aviv, al suo universo. Finché le verità nascoste non si rivelano e per restare fedele a se stessa Salma dovrà fare una scelta dolorosa, ma necessaria.
Nour arriva nell’appartamento nel quale vivono Salma e Leila per caso. Viene dal villaggio tradizionale di Umm al-Fahm, porta l’hijab ed è fidanzata con un musulmano religioso che mal sopporta la convivenza della sua promessa sposa con delle “peccatrici”. Nour non è una ribelle come Leila e Salma, ma è un’intelligente studentessa di informatica che appartiene alla stessa generazione: è inevitabile che l’incontro con loro la spinga a farsi delle domande. Nour crede in Dio, prega, cucina per il fidanzato Wissam. Quando Leila le domanda se ne sia innamorata, risponde: «Quello che conta è andare d’accordo. L’amore arriva dopo». La trasgressione non è nei suoi programmi. Ma quando Wissam fa qualcosa di terribile, gettando la maschera dell’uomo pio, sono Leila e Salma che la salvano. È la scena forse più commovente del film.
Quella che rivela l’intensità del legame tra tre donne che, al di là delle apparenze, conducono da sorelle la stessa lotta: quella per il rispetto e l’autodeterminazione.
Durante una notte in un locale, Salma incontra una ragazza che le piace e si sta allontanando con lei, quando si accorge che Leila si è fermata in un angolo a vomitare: corre a soccorrerla e la riporta a casa. Aperta la porta, Leila si precipita in bagno e lì trova Nour per terra, in lacrime. E non ci sono dubbi su quello che va fatto, e non ci sono parole da dire: le due ragazze accarezzano l’amica, la abbracciano, la spogliano, con estrema delicatezza la spingono sotto il gettito della doccia e la insaponano come solo le madri e le sorelle sanno fare. È il tempo femminile della cura, dell’accoglienza, dell’empatia. Solo dopo arriverà quello della riflessione, della presa di posizione, dall’azione.
Gli uomini non ne escono bene, no. «Il mio intento però non era di parlarne male, ma solo di descrivere la realtà che vedo», precisa Hamoud. «Ho speranza nell’amore, ma in quello buono. Non abbiamo bisogno di uomini che non si comportano bene con noi, che non ci trattano da eguali: allora è meglio stare da sole. Con il film volevo rivelare l’ipocrisia della società patriarcale. Penso che le donne, quando desiderano davvero qualcosa, siano più forti. Gli uomini di In Between sono rappresentativi della debolezza dei maschi di oggi: sono loro che governano il mondo e non mi pare che vada tanto bene». Il suo attacco al patriarcato e alla società tradizionale palestinese non è passato inosservato. «Abbiamo ricevuto minacce dagli abitanti della città tradizionale di Umm al-Fahm, da dove viene Nour. Ci hanno accusato di voler fornire un’immagine negativa della loro città. Questa è stata la motivazione dichiarata, ma sotto credo che ci sia un’inquietudine rispetto al senso della storia che raccontiamo», aggiunge. «Perché a protestare sono stati gli uomini a cui questo film fa da specchio, mostrando cambiamenti possibili che loro non vogliono».
Nell’ultima scena del film, nell’appartamento delle ragazze è in corso una festa. Musica, birra, cocaina, una serata come un’altra nell’instancabile Tel Aviv. Senza dirsi una parola, Leila, Salma e Nour si ritrovano sul balcone. Si osservano di sfuggita.
Ognuna di loro ha superato i propri confini. Non esiste la possibilità di tornare indietro. Si tratta di fare ancora un passo e poi un altro. Ma in quale direzione? E a quale prezzo?
Ziad ha ragione: il mondo non si cambia in un giorno. Ed è questo momento di stasi e di silenzio, di movimenti ridotti al minimo (un tiro da una sigaretta, un sorso da una bottiglia, qualche occhiata indecisa), che rivela il loro essere In Between. È quel balcone, in quel momento, la loro terra di mezzo. Ed è lì che la regista, forse un po’ troppo frettolosamente, decide di lasciarle. Spossate come lo sì è dopo ogni battaglia, ma consapevoli che la resa non è un’opzione: si tratta solo di decidere la prossima mossa.