Viaggio all’interno del Salone antifascista del libro di Parigi, sullo sfondo le elezioni francesi
di Carlo Comanducci
Nove aprile, secondo salone del libro antifascista alla Parole Errante di Montreuil, quartiere “militante” dell’est parigino al confine tra centro città e banlieue.
Arrivo il mattino verso le undici passando di fronte alla libreria Michèle Firk mentre i ragazzi dell’associazione Tabliers Volants all’ingresso del capannone principale stanno cominciando a cucinare il pranzo.
Sulla destra gli editori – Libertalia, Le Temps des Cerises, Agone, Demopolis, Syllepse – hanno sistemato i loro banchi, tra uno stand del movimento intersindacale antifascista (VISA), i sindacalisti rivoluzionari della CNT e tre grosse stampanti in legno per un atelier di serigrafia.
Lungo i muri una serie di manifesti antifascisti. Sulla destra, di fronte alle gradinate dello spazio teatrale, è stato sistemato un tavolo con tre sedie per gli interventi. Qualcuno sta dicendo che Armand Gatti è morto, domani ci sarà il funerale.
Armand Gatti, partigiano maquisard nella resistenza francese, poi paracadutista per le forze di liberazione inglesi, regista cinematografico, scrittore di teatro agit-prop, di prose e di poesie surrealiste e militanti, aveva fondato La Parole Errante nel 1988 insieme a Stéphane Gatti, Hélène Châtelain e Jean-Jacques Hocquard, occupando quella che un tempo era la proprietà familiare e uno degli atelier di Georges Méliès.
La sua morte a 93 anni viene a coincidere con la scadenza della licenza di locazione degli spazi da parte del consiglio dipartimentale, che minaccia la Parole Errante di chiusura.
Mentre i tre ospiti che animeranno il primo dibattito prendono posto, penso che Gatti sia un buon patrono per un salone antifascista, non solo per il suo passato partigiano, ma anche perché, eclettico nella vita come nella scrittura, ha sempre minato quel Senso Comune, pilastro fondamentale del pensiero reazionario, e più recentemente scelto come nome, senza tanti misteri, da un’associazione familista cattolica diretta da un’alleata di Marine Le Pen, Madeleine de Jessey.
Sens Commun è solo uno dei gruppi nella galassia dell’estrema destra francese per cui il Front National, allo stesso tempo, agisce da facciata “presentabile,” da rompighiaccio ideologico e da interfaccia istituzionale con i poteri economici.
Alla vigilia delle elezioni presidenziali e di fronte al preoccupante primato dell’estrema destra nei sondaggi, i diversi attori della militanza antifascista, libertaria e sociale insistono che la lotta sia culturale prima che elettorale e che non si tratta solo di una lotta contro le idee dell’estrema destra ma contro la loro normalizzazione – contro la fusione, appunto, del pensiero di estrema destra con il senso comune.
Sia dal lato identitario e neofascista (o post-fascista come dicono alcuni) con Marine le Pen, sia dal lato neoliberale tecnocratico con Emmanuel Macron la principale forza del discorso della destra sta nella sua logica consensuale ed essenzialista, complice il lento soffocamento di ogni pensiero critico nella paura e nel disincanto.
Il dibattito è stato aperto da Evelyne Bechtold-Rognon dell’Istituto di Ricerca della FSU (Federazione Sindacale Unitaria dell’Insegnamento) proprio sui rigurgiti essenzialisti e identitari che da tempo il FN riversa sull’insegnamento pubblico francese.
Dalla sua fondazione nel 1972 il Front ha infatti attaccato la scuola pubblica come strumento di mobilità sociale (si sa che per i reazionari meritocrazia vuol dire in realtà separazione di classe), come luogo di decadenza culturale (per la sua natura interrazziale e egalitaria) e come rifugio di insegnanti dipinti come parassiti, allo stesso tempo fannulloni e freneticamente impegnati nella propaganda di teorie radicali sul genere e la società.
Riprendendo la critica della concezione identitaria della cultura e dell’insegnamento che contraddistingue il FN, Jean-Paul Gautier (senza “l”, ma sarebbe stato divertente) – insegnante di liceo e autore di un panorama sulla storia dei movimenti di estrema destra in Francia (Les extrêmes droites en France, Syllepse 2009) – ha aperto la questione dei numerosi “divulgatori” di area neofascista, la cui assidua presenza in televisione e su numerosi giornali è oggi accettata senza tante proteste.
Sugli storici “cani da guardia”, fautori di una trasformazione della storia in mito nazionale e del suo insegnamento in una macchina per la produzione di patrioti, ha proseguito William Blanc che si è poi soffermato più in particolare sulla reinvenzione della storia medievale in chiave nazionalista, entrambi argomenti del suo lavoro di ricerca all’École des Hautes Études in scienze sociali (Les historiens de garde, Libertalia 2016 e Charles Martel et la bataille de Poitiers, Libertalia 2015).
Di facile presa sui media populisti, questo medioevo di re, santi e reliquie, un po’ fantasy e un po’ xenofobo, trova una perfetta incarnazione nel parco divertimenti del Puy du Fou – secondo in Francia dopo Disneyland per numero di visitatori – che esalta il medioevo come un’età d’oro dell’identità franco-cattolica e che ha recentemente accolto come sua ultima attrazione un anello di Giovanna D’Arco, una clamorosa e costosissima patacca, donato dal presidente del partito nazionalista Mouvement pour la France, e d’altronde fondatore del parco, visconte Philippe de Villiers.
A questo punto sarebbe dovuta seguire una proiezione del film di Peter Watkins Punishment Park.
Ma il proiettore ha rifiutato di connettersi al lettore di dvd e, in assenza di un computer portatile disponibile, la séance de cinéma è saltata.
Sarebbe stata un’occasione per parlare di violenza di stato e della repressione dei movimenti dissidenti, che il film di Watkins, girato nel 1971, affrontava con un piglio durissimo.
Il park in questione è un campo di “rieducazione” di giovani sovversivi, che viene offerto loro, durante un processo farsa presso una corte militare, come alternativa a lunghissime pene detentive: i prigionieri vengono liberati in un deserto e devono cercare di raggiungere una bandiera piantata a diversi chilometri di distanza, mentre una muta di poliziotti e paramilitari armati fino ai denti dà la caccia con l’autorizzazione di ucciderli. Chi arriva in fondo avrà la pena condonata… forse.
La scelta del film fa chiaramente riferimento allo stato di emergenza che dal 13 novembre 2015 è in vigore su tutto il territorio francese e alle numerose violenze poliziesche, dal caso di Adama Traoré allo stupro di Theo fino all’uccisione di Liu Shaoyo, passando per i numerosi feriti provocati durante la repressione delle proteste contro la Loi Tavail.
FN è il primo partito tra poliziotti e militari e non fa mistero delle sue intenzioni di proseguire nelle politiche securitarie e militariste scelleratamente inaugurate dal governo Hollande e generalmente approvate dalla popolazione. Anche in questo caso, il pensiero di estrema destra fa senso comune.
Dopo aver lavato il mio piatto nel cortile assolato della Parole, che si sta popolando di giovani, meno giovani e giovanissimi in questa giornata primaverile, rientro per la proiezione di un documentario su La Nueve (Alberto Marquard, 2009), compagnia Spagnola al comando del Generale Leclerc nell’esercito di de Gaulle che, un po’ perché fatta di stranieri, un po’ perché fatta di reduci anarchici della rivoluzione spagnola, è stata volontariamente omessa nei resoconti del mito nazionale della liberazione.
Segue una discussione sull’azione intersindacale antifascista animata da due rappresentanti della VISA, che per i miei gusti insiste un po’ troppo sulla direzione sindacale della lotta antifascista invece che sul carattere antifascista della lotta sindacale.
Ma non voglio mettermi qui a spaccare capelli, come troppo spesso succede nell’ambito militante. Ben altri distinguo invece faceva tempo fa Marine Le Pen, se ben ricordo, arrampicandosi sugli specchi a spiegare che il suo partito non è nazional-socialista, ma social-nazionalista. Che bel distinguo! Il padre invece, preferisce ancora cascare sui dettagli…
Ho finito col comprare un’edizione de Il diritto alla pigrizia di Paul Lafargue – niente da dire finché critica l’ideologia del lavoro, ma poi purtroppo scade nel mito della macchina liberatrice – e un libro sul pensiero anarchico scritto da Normand Ballargeon e il cui titolo rieccheggia un verso di Leo Ferré (L’ordre moins le pouvoir, Agone 2001).
Il sole del tardo pomeriggio mi ha sottratto ad un dibattito intitolato “Il Front National al potere” – all’annuncio un coro ha risposto “non ne vogliamo sapere!”. Ma non ho perso più tardi uno spettacolo teatrale tratto dal romanzo Sconosciuto a questo indirizzo di Kathrine Kressman Taylor.
Basata su uno scambio epistolare tra due commercianti emigrati in America, un ebreo e un tedesco che decide di rientrare in Germania per sfruttare le opportunità economiche offerte dalla crisi degli anni ‘30, la pièce segue l’ascesa al potere di Hitler attraverso la progressiva disgregazione dell’amicizia tra i due, via via che il tedesco assume le posizioni antisemite del partito di cui è entrato a far parte.
Lo spettacolo finisce su una nota di vendetta, terribile e perfettamente orchestrata. Qui, la decadenza culturale, spettro agitato dalla destra per colpire i migranti, viene rovesciato come sintomo della deriva autoritaria.
Mentre mi preparo a rientrare a casa i musicisti di un gruppo di fanfare balcaniche, genere popolarissimo nei centri sociali parigini, si preparano a suonare. Un signore rimpacchetta e carica su un furgoncino i giochi in legno che hanno intrattenuto i bambini che hanno accompagnato i loro genitori a questa giornata di svago. Domani, si ritorna a quello che gli altri chiamano realtà.