La storia dell’Iraq raccontata attraverso le parole dei suoi intellettuali
ATLANTE LETTERARIO ARABO è una rubrica che, ogni mese, racconterà, attraverso la letteratura, alcuni dei più significatici eventi della storia contemporanea di un paese arabo
Di Silvia Moresi
Uno dei più famosi miti presenti nella Genesi racconta che, quando sulla terra ancora esisteva un solo e unico popolo che parlava un’unica lingua, a Babele, città sull’Eufrate, nell’attuale Iraq, si decise di costruire una torre che portasse al cielo. Come narrato nella Bibbia, Dio, resosi conto che la perfetta armonia tra le genti avrebbe reso possibile l’edificazione della torre, punì la superbia umana conferendo a ogni persona una lingua diversa, in modo tale che non potessero più comprendersi e portare a termine il progetto.
Questa narrazione biblica che spiega mitologicamente l’origine delle diverse lingue esistenti nel mondo, appare però oggi anche come una tetra metafora della condizione del popolo iracheno, dilaniato dal 2003 da sanguinosi scontri confessionali, una vera e propria guerra civile in cui la “comprensione” tra esseri umani sembra essersi definitivamente smarrita.
La storia irachena moderna e contemporanea è un lungo elenco di guerre e colpi di stato, a partire dal 1921, anno della creazione, da parte della Gran Bretagna, del regno dell’Iraq, sul cui trono venne posto il re Faysal Ibn al-Husayn. Il nuovo sovrano, secondo gli accordi, era tenuto a difendere gli interessi britannici nella regione, e in cambio Londra avrebbe garantito alla nuova monarchia sicurezza e assistenza militare, una sorta di “colonialismo indiretto” nascosto dietro un apparato statale arabo. L’influenza della Gran Bretagna sul regno dei due fiumi non terminò neppure con la scadenza del mandato britannico nel 1932, e con la formale indipendenza dell’Iraq.
Solo nel 1940, sotto il regno di Abd al-Ilah bin al-Hashemi (re reggente in attesa che il sovrano designato, Faysal II, raggiungesse la maggiore età), il primo ministro Rashid Ali al-Kaylani portò avanti una politica nettamente anti-britannica, fornendo il petrolio a due paesi nemici dell’Inghilterra, l’Italia e la Germania. Le truppe britanniche rioccuparono il paese nel 1941, al-Kaylani fu destituito, e i pozzi petroliferi iracheni tornarono a rifornire l’alleanza anglo-americana durante la seconda guerra mondiale.
L’Iraq, divenuto una delle più importanti basi per l’Occidente, nel 1955 siglò il cosiddetto “Patto di Baghdad” con Turchia, Pakistan e Iran, una sorta di alleanza di mutua difesa in funzione anti-comunista, fortemente appoggiata da Gran Bretagna e Stati Uniti, e che allontanò Baghdad dall’Unione Sovietica e dal suo alleato, l’Egitto di Jamal Abd al-Naser.
Al contrario di quanto accadeva nei giochi di alleanze della politica internazionale, all’interno della società civile irachena crebbe, in quegli anni, un forte sentimento anti-britannico e anti-monarchico e una totale venerazione nei confronti del presidente egiziano, ammirato per sua ideologia panarabista e per il suo impegno contro lo Stato di Israele.
Nel romanzo Naftalina (Jouvence, trad. M.Avino), ambientato negli anni ‘50, la scrittrice irachena ‘Aliya Mamduh, narra l’infanzia e l’adolescenza della giovane Huda, cresciuta a Baghdad in una famiglia quasi totalmente al femminile, attraversata da difficili e complicate relazioni personali.
Nel romanzo, le storie di queste donne, la loro sofferenza, i loro desideri sessuali, i loro sussurri e i loro segreti hanno come sfondo proprio le manifestazioni anti-inglesi e quelle in sostegno della politica di Jamal Abd al-Naser, negli anni della nazionalizzazione del canale di Suez:
“Noi eravamo tutti nasseristi. Quando la nonna sentiva la voce di Nasser alla radio diceva: ‘Che importa se ha il naso grosso, la sua voce mi sembra di conoscerla da sempre, somiglia a quella di mio marito’. Quando mio padre tornava da Karbala, si installava in camera mia, accendeva la radio e la sintonizzava su ‘La voce degli arabi’. Si piazzava quattro bicchieri davanti e brindava da solo mentre ascoltava. […] Tutta Baghdad si era unita all’insurrezione quel giorno. […] Mio padre si era tolto l’uniforme e si era mescolato alla folla. […] Nasser era venuto, si era infiltrato tra le nostre corde vocali, liberando tutti i nostri segreti. Esultavamo e scandivamo: ‘Ingiuriate gli inglesi! Maledite la reazione, insultate il colonialismo e il Reggente[…]’. La voce di Nasser somigliava alla pietà e al volto di mia nonna. Tutti gridavano abbasso: ‘Abbasso i trattati! Abbasso la tirannia!’ e noi memorizzavamo ogni parola con velocità supersonica.”
Nel 1958, con il colpo di stato guidato dal generale Abd al-Karim al-Qasim, leader delle correnti anti-britanniche, la monarchia fu abolita e proclamata la repubblica. Nonostante i movimenti nasseriani, tra cui il neonato partito Ba‘th, avessero dato una spinta decisiva alla caduta del sistema monarchico, questi furono poco tollerati dal governo di al-Qasim, più vicino alle posizioni del partito comunista iracheno.
Il nuovo esecutivo provò anche a scrollarsi di dosso le varie influenze occidentali, uscì dal Patto di Baghdad e abrogò il trattato di mutuo soccorso con la Gran Bretagna i cui militari furono costretti a lasciare il paese. Dopo la costituzione dell’OPEC nel 1960, al-Qasim, con la “Legge 80”, vietò anche nuove concessioni petrolifere alle compagnie straniere, dando il totale controllo della attività estrattive alla neonata Iraq National Oil Company.
La nuova politica irachena allarmò Inghilterra e Stati Uniti che, secondo alcuni analisti, nel 1963, spianarono la strada al colpo di stato con il quale prese il potere il partito Ba‘th, da sempre ostile al governo di al-Qasim.
Saddam Hussein divenuto vicepresidente nel 1968 durante il governo di Ahmed Hasan al-Bakr, dopo una importante carriera politica, nel 1979 ottenne la carica di primo ministro, probabilmente costringendo lo stesso al-Bakr a dimettersi.
Il nuovo ra’is, dopo una rapida epurazione interna al suo partito, assegnò ministeri e cariche di governo a esponenti del suo clan di Tikrit, in maggioranza sunniti, marginalizzando sostanzialmente la comunità sciita, maggioritaria nel paese. Hussein iniziò, inoltre, una vera e proprio pulizia etnica ai danni della popolazione curda, e sgombrò il paese da comunisti e intellettuali, ritenuti pericolosi per la stabilità del suo regime.
Il 1979 fu anche l’anno della Rivoluzione Iraniana che portò alla nascita della Repubblica Islamica dell’ayatollah Khomeini. Il ra’is iracheno si presentò all’Occidente come difensore della laicità in grado di bloccare l’espansione dei governi islamici. Preoccupato per un possibile appoggio dell’Iran alle rivolte shiite al sud dell’Iraq, Saddam Hussein, rivendicando anche vecchie questioni di confine, nel 1980 attaccò l’Iran con il pieno appoggio degli Stati Uniti (e non solo) che finanziarono e rifornirono di armamenti l’Iraq.
La stampa e la letteratura irachene, sottoposte a una dura censura, divennero la cassa di risonanza del regime, un mero strumento di propaganda; famosa è l’antologia Qadisiyyat Saddam: qisas tahta lahib al-nar (La Qadisiyya di Saddam: storie sotto il fuoco. Qadisiyya è la località dove avvenne la decisiva vittoria dell’impero arabo su quello persiano, nel 637 d.C.), edita dal regime, che raccoglie racconti sulla guerra Iran-Iraq, un elogio al ra’is e alla “bontà” e alla “utilità” delle sue guerre.
Lo scrittore iracheno Hassan Blasim, fuggito dall’Iraq a causa del regime, nel suo racconto Un giornale militare – Alle vittime della guerra Iran-Iraq (in Il matto di piazza della libertà, il Sirente, trad. B Teresi) narra la storia surreale di un giornalista che, dopo la sua morte, racconta a Dio le sue vicissitudini. Quando era in vita, il suo compito era quello di selezionare, e nel caso di censurare, i racconti dei soldati che arrivavano dal fronte:
“No, Vostro Onore, non censuravo i testi, come forse lei immagina: i soldati scrittori erano molto più rigorosi e disciplinati di qualunque censore che io abbia mai conosciuto in vita mia, e ponderavano minuziosamente ogni parola. Del resto non erano così stupidi da inviare parole piagnucolose o frasi cariche di gemiti e grida. Alcuni scrivevano perché la scrittura li aiutava a credere che non sarebbero stati uccisi e che la guerra fosse soltanto un’avvincente storia scritta su un giornale […] e altri scrivevano perché costretti.”
Alla fine del racconto, il protagonista è costretto a creare un inceneritore per sbarazzarsi delle migliaia di racconti che lo stanno sommergendo dopo ormai nove anni di guerra. L’inceneritore diventa però anche una metafora della guerra con cui Dio “si libera” dei suoi personaggi:
“dovetti lavorare con impegno e zelo, notte e giorno, per bruciare le storie dei soldati e i loro nomi scritti sui quaderni […] nella speranza che la guerra finisse e che terminasse quella follia di carte di sperma color cachi…
La guerra finì […] dopo lunghi, terrificanti anni. Ma poi scoppiò un’altra guerra, e allora non mi rimase altra scelta che il fuoco dell’inceneritore […].
E adesso, […] so che Tu sei Onnipotente, Saggio, Onnisciente e Imperioso. Ma mi domando, anche tu lavoravi in un giornale militare? Come mai hai un inceneritore per i tuoi personaggi?”
La lunga guerra Iran-Iraq si concluse con un nulla di fatto, lasciando allo stremo la popolazione irachena e costringendo molti a emigrare. Chi rimaneva in patria non poteva far altro che “adeguarsi” alla “ba’athizzazione” del paese in cui ogni tipo di dissenso era punito con il carcere o la morte. Il romanzo Rapsodia irachena di Sinan Antoon (Feltrinelli, trad. R. Ciucani), ambientato alla fine del conflitto, nel 1989, è il diario dei giorni di carcere di Furat, uno studente di lettere arrestato dal regime perché ritenuto un oppositore.
Il resoconto, scritto dal giovane detenuto in una sorta codice, eliminando cioè i puntini diacritici che, nella lingua araba, permettono di distinguere le lettere, viene trovato e ricomposto da uno dei secondini, il “compagno” Talal, che decide di lasciare tra partentesi i termini di difficile interpretazione, dando vita, così, a una serie di sarcastici accostamenti: “Loffio” potrebbe in realtà essere la parola “Leader”, il “Ministero dell’Ignoranza e della Disinformazione” potrebbe corrispondere al “Ministero della Cultura e dell’Informazione”, e la parola “bastardi” potrebbe essere letta come “ba‘athisti”.
Nel diario, i ricordi nitidi della vita passata di Furat si mescolano a suoi sogni e alle frequenti allucinazioni dopo le quali, però, il giovane ripiomba nel drammatico “qua(la)ggiù” della sua cella, tra torture e privazioni. In questi deliri, le lettere impresse sui fogli prendono vita, sembrano ribellarsi a significati imposti, e la scrittura e la follia appaiono, come al solito, come l’unica salvezza dal degrado fisico e morale imposto dall’oppressione dei regimi:
“Mi sono svegliato e mi sono ritrovato qua(la)ggiù.
Il bianco della carta mi seduce, offrendomi la libertà di vagabondare nella mia solitudine. Squarcerò la superficie del silenzio con miei deliri. Le parole si trasformeranno in esseri mitologici che scaveranno un tunnel e mi porteranno fuori. Oppure saranno dei prismi che appenderò tutt’attorno a me per guardarci attraverso. Ansioso, ho tracciato un punto interrogativo e sono rimasto a fissarlo per ore. Ricambiava il mio sguardo e poi, all’improvviso, si è sollevato staccandosi dal suo puntino e ha detto:
‘Ti faccio dono di me, prendimi e fa’ di me ciò che vuoi! Sarò una falce con cui mietere i dubbi che ti consumano. Oppure piantami e io crescerò e ti proteggerò da tutti loro’”.
A causa degli ingenti costi della guerra appena conclusa, lo stato iracheno si era fortemente indebitato soprattutto con uno dei suoi stati confinanti, il Kuwait, un territorio strategico sul mare, rivendicato dall’Iraq sin dagli anni ’50. Il supremo ra’is, dopo solo un anno dalla fine del conflitto con l’Iran, decise di attaccare il piccolo emirato, questa volta senza l’appoggio degli Stati Uniti che trovarono più vantaggioso schierarsi a favore del Kuwait.
In poco meno di un anno, con l’operazione Desert Storm, una coalizione di trentacinque paesi, sotto l’egida dell’Onu e guidata dagli Stati Uniti, sbaragliò l’esercito iracheno costretto a ritararsi dal territorio kuwaitiano.
L’Iraq, già stremato da dieci anni consecutivi di guerra, fu sottoposto a un rigido embargo che prostrò la sua popolazione senza però scalfire il regime. La fame, ma anche il perenne clima di diffidenza e terrore instaurato dai servizi segreti infiltrati ovunque, sgretolarono la società irachena già profondamente divisa al suo interno. L’emigrazione clandestina, la fuga da quell’inferno, divenne una necessità:
“Io ero, allora, in fuga dall’inferno degli anni dell’embargo. […] In quegli anni spietati, la paura dell’ignoto era aumentata a dismisura, estirpando dagli esseri umani il senso di appartenenza alla realtà consueta, e riportando in superficie una bestialità che fino ad allora era rimasta sepolta sotto i semplici bisogni quotidiani degli uomini. In quegli anni una crudeltà abietta e animalesca, generata dalla paura di morire di fame, aveva preso il sopravvento. Io sentivo che stavo correndo il rischio di trasformarmi in un topo.” (Hassan Blasim, Il camion per Berlino, in Il matto di piazza della libertà)
Hassan Blasim e molti altri scrittori iracheni fuggiti dall’Iraq, dagli anni ’90 in poi, nei loro paesi d’esilio, hanno iniziato a comporre una “inedita” letteratura irachena, libera dalla censura del regime ma anche da una sorta di auto-censura, generata dalla paura. Nei loro lavori, gli iracheni sembrano destinati all’inferno anche fuori dalla patria. La violenza e il terrore inseguono e perseguitano gli esuli, ritornano come incubi notturni, portando spesso questi personaggi alla follia.
“Alla fine giunse a quest’idea: doveva ambire a qualcosa di più del semplice liberarsi di questi sogni fastidiosi; doveva riuscire a controllarli, a modificarli, a ripulirli dalle atmosfere putride e a integrarli con le regole della sana vita olandese. I suoi sogni avrebbero dovuto imparare la lingua sana del Paese ospitante, in modo da poter ideare immagini e pensieri nuovi. Era necessario far sparire tutte le vecchie facce cupe e miserabili.” (Gli incubi di Carlos Fuentes, Hassan Blasim, in Il matto di piazza della libertà)
Lo scrittore ‘Abd al-Ilah ‘Abd al-Qadir, anch’egli esule, nel racconto L’esodo dei gabbiani (Jouvence, trad. A. Barbaro), narra invece l’abisso interno, quello in cui gli iracheni “succhiavano la paura insieme al latte materno”. L’intero romanzo, che racconta la storia di Muhammad al-Hadi soffocato da un padre padrone che ha distrutto la sua vita e quella del suo paese, è una allegoria dell’Iraq sotto la dittatura di Saddam Hussein, mai esplicitamente nominato.
“Suo padre non ascoltava più nessuno, lui e la sua banda controllavano ogni minimo movimento, precludendo a chiunque tutte le vie d’uscita. Le bocche erano state tappate, perfino le urla dei neonati ancora attaccati al cordone ombelicale erano state soffocate. Suo padre era diventato un tiranno che nessuno poteva osare contrastare né contraddire. […] Era ormai evidente che il padre li stava trascinando verso un’ennesima guerra che avrebbe distrutto tutto.”
Nel racconto, il padre, come un moderno Erode, per evitare di avere un giorno dei rivali, si rende colpevole, assieme alla sua “banda”, dell’uccisione di tutti i suoi nipoti maschi, chiara metafora delle diverse epurazione del regime, compiute per salvaguardare la stabilità del governo.
Muhammad al-Hadi decide di fuggire dal suo paese dove l’aria ormai ha odore di putrefazione, e per strada si “inciampa” nei cadaveri; il protagonista decide di migrare come i gabbiani, lasciandosi alle spalle il “tempo della morte”:
“Sì, questo è davvero il tempo della morte, mia cara, un tempo in cui non c’è spazio per le risate e la tranquillità, per il sonno e per l’amore: questo è un tempo in cui si sentono soltanto esplosioni di bombe e notizie di morte. Tutte le facciate delle case sono tappezzate da annunci mortuari. […] Io parto per andare alla ricerca di me stesso, per riprendermi un sogno che è stato ucciso.”
Il racconto di ‘Abd al-Qadir, scritto nel 2000, si conclude con un diluvio purificatore che sommerge il paese, distrugge la dittatura, e riaccende le speranze per il futuro.
Nel 2003, un diluvio di bombe ha effettivamente sommerso l’Iraq, il regime è caduto, ma le speranze per il futuro sono morte assieme a un gran numero di civili iracheni. La scellerata e ipocrita guerra mossa contro l’Iraq dagli Stati Uniti e da una “coalizione di volenterosi”, ha completamente disarticolato la società civile irachena, confermando che le guerre non sono mai strumento utile per creare democrazia e giustizia.
La ricerca di vendetta da parte dei gruppi religiosi ed etnici oppressi dal regime di Saddam, e la nascita nel paese di frange terroristiche affiliate prima ad al-Qaida, e poi a Da‘esh, ha in sostanza creato un conflitto di “tutti contro tutti”.
Lo scrittore Ahmed Saadawi, nel romanzo Frankenstein a Baghdad (Edizioni e/o, trad. B. Teresi), scritto nel 2013, narra proprio dell’Iraq contemporaneo in cui tutti sono, allo stesso tempo, vittime e carnefici. In una Baghdad devastata da continue esplosioni, lo straccivendolo Hadi decide plasmare una creatura, composta dalle parti dei diversi cadaveri vittime della guerra civile. Il mostro, chiamato “Comesichiama”, si autoproclama giustiziere, e vaga per la città vendicando i morti di cui è composto il suo corpo, diventando così lui stesso un assassino. Paradossalmente questa creatura mostruosa, creata da parti di vittime appartenenti a ogni religione e ogni etnia, incarna l’impossibile coesione del popolo iracheno:
“Io, essendo formato da brandelli umani appartenenti alle più disparate razze, tribù, categorie ed estrazioni sociali rappresento quel melting pot impossibile che non si è mai realizzato in precedenza. Io sono il cittadino iracheno primigenio […].”
Il “Comesichiama” è il frutto della violenza e del sopruso di cui tutti, in Iraq, sono colpevoli:
“[Il male] ce l’abbiamo tra le costole, anche se vorremmo eliminarlo dalle strade. […] tutti noi siamo criminali, chi di più chi di meno, e il buio interiore è quello più oscuro. […] tutti quanti insieme formiamo l’essere malvagio che adesso sta rovinando le nostre vite.”
I nuovi governi iracheni, costituiti secondo un pericoloso modello “alla libanese”, cioè con cariche divise secondo appartenenze etniche o religiose, non sembrano assolutamente in grado di placare questa creatura mostruosa, né di avviare un progetto che porti le varie comunità irachene nuovamente a “comprendersi”.