Il lago di Urmia è il confine settentrionale del Kurdistan iraniano. Non mi spingo oltre.
Dall’alto vedo una mandria di mucche. Cammino per venti minuti tra piante di ceci e spinose prima di arrivare a quello che un tempo era un lago vero, salato come pochi al mondo. L’acqua si è persa col tempo e a riva piccole rane saltellano nella melma. Sembrano mosche. Mi avvicino piano, due ragazzi a cavallo di asini governano una cinquantina di mucche. Hanno una radio e ascoltano musica pop. “America? Germany? France? I’m not a terrorist” – dice uno dei due -. Mi racconta di essere uno studente di legge all’università di Urmia, tra due anni andrà in Francia a fare il dottorato. Mi dice di mettere via la macchina fotografica: “Questo è solo lavoro, capito? Lo sai cosa vuol dire? Lo faccio solo per soldi”. Guardo l’asino sul quale si dimena, penso che forse si vergogna di essere ripreso lì, lui che vuole andare in Francia e diventare un avvocato.
Questo posto, senza più l’acqua che s’infrange sulle rocce scoscese, è un confine. Qui gli uomini potrebbero ancora vivere dentro alle grotte e il vento continuerebbe a tagliare la terra come sulla punta di un oceano.
“Cosa ci fai qui?”. Gli indico gli amici con cui sono arrivata, due puntine sulla collina. Capisce che sono curdi e urla: “Quella gente non merita nulla. Sono terroristi”. Lui invece è un turcomanno e continua: “Noi siamo i veri musulmani. Noi siamo sciiti!”. Allora nomina i fedayin, i pasdaran, le città sante di Karbala, Najaf, l’Imam Hussein. L’amico gli fa cenno di andare via ma lui continua ad urlare il suo credo aggressivo, come se questo bastasse a farlo sentire nel giusto.
Lo guardo negli occhi e gli dico che non ho bisogno delle sue lezioni. Non so se ha capito, ma gira l’asino e galoppa in direzione opposta lasciando al vento il saluto di Khoda Hafez.