Lo sciopero della fame dei prigionieri politici palestinesi, la mobilitazione solidale della popolazione civile
di Cecilia Dalla Negra (Osservatorio Iraq) e Christian Elia
foto di Gianluca Cecere
E’ una città deserta quella che si sveglia la mattina del 27 aprile nel cuore dei Territori Palestinesi occupati. Ramallah, 8.30 del mattino, poche macchine in giro, serrande abbassate. Le voci dei bambini non riempiono le strade, perché le scuole, come tutti gli uffici che fanno capo alle istituzioni statali, sono chiuse.
Avvolta in un silenzio inusuale, la capitale economica dei Territori aderisce allo sciopero generale lanciato da Al Fatah in solidarietà con i prigionieri palestinesi, e alla “giornata della rabbia” indetta per il giorno seguente.
Dall’interno delle carceri israeliane, cuore del sistema oppressivo dell’occupazione, siamo al giorno 12 di stomaco vuoto – solo acqua e sale per sopravvivere – in quella che è stata definita come una protesta “storica”, che non si vedeva dai tempi della seconda Intifada.
“L’atmosfera è la stessa, così come la sensazione di unità fra la popolazione, che non sentivamo da tanto tempo”: Lema Nazeeh, attivista dei Comitati di Resistenza popolare e del movimento giovanile di Ramallah, corre da una piazza all’altra per seguire l’andamento dello sciopero generale.
“Reprimere i prigionieri e negare loro i più basilari diritti fondamentali è una pratica che Israele utilizza da sempre. Ma questa volta la risposta è unitaria come non accadeva da 15 anni”, commenta, gli occhi puntati sul cellulare per seguire aggiornamenti e notizie.
Era il 16 aprile scorso quando Marwan Barghouti, storico leader di Al Fatah arrestato nel 2002 e condannato a 5 ergastoli, lanciava lo Sciopero della fame per la dignità e la libertà dal carcere di Hadarim, in Israele, in occasione della Giornata dei Prigionieri.
“Libertà e dignità sono diritti universali, che dovrebbero essere garantiti ad ogni paese e ad ogni essere umano. I palestinesi non saranno un’eccezione. Solo ponendo fine all’Occupazione cesserà questa ingiustizia e potrà nascere la pace (…). Non c’è altra scelta che resistere a tutti gli abusi che subiamo entrando in sciopero della fame”.
tratto dal testo di Marwan Barghouti al New York Times
Oltre 1.000 quelli che da subito hanno aderito ad una protesta che, sin dall’inizio, si annunciava diversa dal solito. “Dal 1948 ad oggi sono stati circa 1 milione i palestinesi arrestati e detenuti, e dal 1967 oltre 800mila”, spiega Lema. “Attualmente nelle carceri ci sono 6.500 persone, di cui 3.000 donne e 500 bambini. Molti di loro si trovano in regime di detenzione amministrativa: una misura illegale che consente ad Israele di trattenerli per anni senza specifiche accuse ne’ processi”.
La piattaforma delle richieste dei prigionieri si muove su due livelli: da un lato le condizioni detentive che restano inaccettabili, dall’altro quello del segnale politico di resistenza nonviolenta, rivolto allo stesso tempo al fronte interno palestinese e a quello – ormai immobile – internazionale.
Rispetto alle condizioni in carcere, sono in ballo diritti umani fondamentali: i prigionieri possono vedere le famiglie solo una volta al mese, le condizioni di trasporto (per i trasferimenti o per le udienze) sono faticose e lunghe, a maggior ragione per persone prostrate dallo sciopero della fame. Inoltre i costi delle cure mediche dei detenuti sono (al di là del minimo indispensabile) a carico delle famiglie.
Su tutte, poi, primeggia l’inaccettabile meccanismo della detenzione amministrativa, che i tribunali militari israeliani possono allungare a proprio piacimento, privando i prigionieri dei loro fondamentali diritti della difesa. Per non parlare poi, di fronte a una legittima protesta come lo sciopero della fame, interviene punendo gli scioperanti, a cui hanno iniziato a confiscare anche il sale.
Dal punto di vista politico, rispetto al fronte interno, non appena Barghouti ha lanciato lo sciopero, i territori della Palestina si sono accesi. “Il numero delle persone entrate in sciopero della fame dentro le carceri aumenta di giorno in giorno. La situazione è critica, se qualcuno non dovesse farcela qui potrebbe succedere di tutto”, sottolinea Lema.
Ed è ancora una volta dalle carceri che torna ad accendersi un movimento capace di risvegliare il senso di unità popolare: in ogni città e villaggio dei Territori occupati, così come a Gaza e nelle città del ’48, in questi giorni sono sorti presidi e tende in solidarietà ai detenuti.
A Ramallah gli unici rumori di una giornata di sciopero arrivano da piazza Al Manara e Arafat, dove addirittura due sposi decidono di festeggiare le proprie nozze sotto il tendone rosso in cui campeggiano le foto dei prigionieri e gli slogan di Barghouti.
E se le richieste avanzate dai detenuti sono specifiche, il messaggio è politico, Lema ne è convinta. “E’ un segnale lanciato alla popolazione e alla leadership quasi dieci anni dopo l’inizio delle divisioni interne: un invito all’unità di cui oggi c’è bisogno più che mai”, spiega.
Di queste divisioni, che non sono più solo politiche ma sociali, ne è esempio centrale proprio Ramallah, dove a fianco del nuovo quartiere commerciale, in cui sorgono grattacieli e centri commerciali, ancora i campi profughi lottano per avere elettricità e acqua potabile.
“Non abbiamo un paese, abbiamo solo questa città in cui concentrare tutte le cose che altrove sono normali. Abbiamo bar, caffetterie, piscine, locali. Da qui, il muro e l’occupazione puoi anche non vederli mai”, commenta Lema, convinta che queste distanze siano strategiche per l’Occupazione, e che siano parte integrante del problema. Ecco perché la protesta che sta crescendo in queste ore ha il sapore dell’Intifada.
“Da oltre 15 anni non assistevamo che a scioperi individuali, di singoli prigionieri. In questo caso è invece collettivo, unitario. E’ un messaggio chiaro lanciato al nostro popolo e alle istituzioni: bisogna tornare a lottare insieme per un obiettivo comune. La vita dei prigionieri deve andare oltre le divisioni, unirci nella resistenza”.
E non nasconde la soddisfazione di aver visto uno sciopero riuscito: “In ogni città, in ogni villaggio della Palestina sono state organizzate manifestazioni, azioni, scontri. E per lo sciopero nazionale il paese si è fermato”.
Lo confermano i numeri che arrivano nella serata di venerdì, alla fine di quella “giornata della rabbia” lanciata da Fatah per dimostrare forse più a se stessa che all’esterno che la resistenza è ancora viva.
“Una vera giornata di Intifada”, spiega Lema, nel corso della quale episodi di confronto diretto con l’esercito si sono ripetuti per ore, in tutti i territori.
Oltre 60 feriti è il bilancio finale, con le situazioni più dure davanti al carcere di Ofer e al check point di Qalandia. Ma anche i villaggi abitualmente animati dalla resistenza popolare sono stati interessati da azioni e raid dell’esercito: su tutti Nabi Saleh, che da mesi subisce attacchi continui diretti in modo particolare ai giovani.
“La questione dei prigionieri politici è solo una parte del sistema di Occupazione collettivo, che ci riguarda tutti. Ma la loro lotta sta tornando a farci sentire parte di una causa comune”, conclude Lama. Rispetto invece al messaggio che arriva a tutto il mondo dalle carceri palestinesi, tutto tace. Nessuno, né a livello politico né a livello di organizzazioni internazionali, ha per ora battuto un colpo. Mai come ora, la Palestina è lontana, relegata in una dimensione che non le appartiene.
Gli ultimi 15 anni sono stati un calvario per la Palestina, trascinata suo malgrado da una legittima lotta per l’indipendenza e per la fine dell’Occupazione militare, in un assurdo dibattito sulla sicurezza internazionale, non troppo lontano dai toni islamofobici europei e americani.
La questione dei diritti dei palestinesi, la questione di un’Occupazione coloniale che compie 50 anni a giugno; il regime di Apartheid cui è sottoposta la popolazione civile, la demolizione di case, la legalizzazione delle colonie e mille altre tematiche ancora, sembrano ormai fuori dall’agenda internazionale.
La protesta vivrà un nuovo giorno di manifestazioni in tutta la Palestina, il 3 maggio prossimo, con un evento centrale a Mandela Square, a Ramallah.
Anche a tutti noi parla questo sciopero. La statua di Mandela, dono del governo sudafricano a Ramallah e ai palestinesi, ci ricorda che sono stati in tanti, nella storia, a usare lo sciopero della fame come strumento di lotta pacifica. E tanti sono stati definiti “terroristi”, molto prima di essere ricordati come persone che hanno lottato per la libertà.