ProSavana è un progetto che sottrae la terra ai piccoli agricoltori per creare grandi appezzamenti sul modello delle fazende brasiliane. Ecco chi si oppone
di Ilaria de Bonis
Il land grabbing in Mozambico avanza silenzioso e quasi indisturbato.
Il ProSavana, mega progetto di agricoltura industriale (frutto della triangolazione tra Giappone, Brasile e Mozambico) minaccia i contadini locali. Dopo anni di duro lavoro per coltivare anacardi, cocco, banane, canna da zucchero, i contadini si vedono scippare progressivamente fazzoletti di terra e piccole attività.
Gli attivisti dei diritti umani, organizzati nella campagna Não ao ProSavana, per un anno circa hanno bloccato il progetto, accusando il governo mozambicano di essere in combutta con i predatori di terra.
Di recente però i buoni rapporti diplomatici tra Mozambico e Giappone hanno accelerato il business.
«Non è facile riconoscere l’inganno – ci spiega suor Rita Zaninelli, comboniana di Pax Christi, che da anni combatte i ladri di terra nel nord del Mozambico. – Ad esempio, io che sto qui da otto anni so bene che l’Unione nazionale dei contadini del Mozambico, schierata col ProSavana, non ha davvero niente a che fare con i locali. I fautori del progetto si vantano di averli dalla loro parte, usando delle sigle apparentemente interne alle comunità rurali, ma in realtà non le rappresentano per niente».
Suor Rita dice che la loro tecnica si è affinata: «ora sono più furbi, lo chiamano progetto agricolo ma noi che li conosciamo vi assicuriamo che è puro land grabbing».
Il ProSavana punta a creare mega-appezzamenti di terra sul modello delle fazende brasiliane e si sviluppa lungo il corridoio di Nacala, nel nord del Mozambico: copre 11 milioni di ettari di terra in 19 distretti nelle province di Zambesi, Nampula e Niassa.
«Nel giugno 2014 le organizzazioni mozambicane lanciarono ufficialmente un movimento di opposizione con l’obiettivo di resistere all’avanzamento di quell’investimento teso ad usurpare la terra ai contadini», spiega l’attivista Jeremias Vunianje.
La campagna Não ao ProSavana all’inizio ha funzionato bene, tanto che i contadini a più riprese hanno detto no alle lusinghe del governo. Dal 2014 ad oggi, però, la strategia del Consorzio nippo-brasiliano è cambiata.
Le tecniche di comunicazione si sono affinate e frammentano l’opposizione. «Ci hanno diviso – dice la suora – promettendoci chissà quali vantaggi». Ogni tanto una comunità riporta piccole vittorie, ma la guerra la stanno vincendo i più forti.
In una lettera aperta all’Agenzia giapponese di cooperazione (Jica) gli attivisti denunciano una strategia di marketing e di comunicazione che tende a frazionare e screditare la società civile del Mozambico.
Molti di quelli che inizialmente erano contro, sono passati dall’altra parte, compreso addirittura il WWF che pare dar credito ai predatori.
L’energico Jeremias denuncia il carattere “segreto” di tutta l’operazione che «viola le norme di cooperazione internazionale».
Ma il sospetto è che il ProSavana sia proprio in linea con i nuovi criteri di cooperazione allo sviluppo, che sempre di più danno credito ai privati e seguono logiche industriali e di profitto.
Il ProSavana nasce ufficialmente al G8 dell’Aquila nel luglio 2009, quando il primo ministro giapponese Aso e il brasiliano Lula da Silva si accordano per l’Agricultural Development in Africa’s Tropical Savannah. L’idea era quella di acquisire migliaia di ettari al nord, metterli a coltura estensiva con metodi industriali e farci lavorare i braccianti.
Quella inizialmente descritta come savana tropicale (dunque terra incolta e poco produttiva) comprende in realtà anche fazzoletti di terra coltivata.
Per far passare l’idea che ci fosse un vantaggio riservato alla gente comune, si parla di terra “stagnante” e povera. In realtà non è per niente così, dicono gli attivisti: questi terreni sono in parte verdi e coltivati. Però le colture bastano appena all’autosostentamento. Successivamente la narrazione ufficiale aggiusterà il tiro.
Diversi report smascherano tutta l’operazione di land grabbing, uno dei più puntuali è il report del 2013 messo a punto dal ricercatore giapponese Sayaka Funada Classen, professore associato alla Tokyo University of Foreign Studies.
Spiega che il progetto è frutto di una strategia ben meditata, che addirittura poggia su indicazioni delle Nazioni Unite. È suddiviso in quattro fasi: quella preparatoria va dal 2009 al 2010, seguono quelle di penetrazione nel tessuto sociale e infine la quarta, quella attuale, che serve a «travestire il programma ProSavana per dargli l’apparenza di un tradizionale strumento di assistenza agricola ai piccoli agricoltori». Insomma, non c’è nulla di casuale, tant’è che viene ingaggiata una multinazionale del marketing, la Majol.
Secondo il ricercatore Sayaka, la fame di terra è all’origine della spietata corsa all’oro dei raccolti degli ultimi anni: il punto, spiega, è che grandi paesi come la Cina e il Giappone sanno che per sfamare intere popolazioni e alimentare animali da macello (vista la crescente domanda di carne) servono terreni da coltivare a soia.
L’Africa costituisce una riserva infinita di terra da sfruttare fino allo sfinimento. Una volta inaridita, svuotata, depredata, potrà essere abbandonata per dar il via a nuovi assalti.
Il report citato lo dice molto chiaramente: la competizione con la Cina spinge a nuovi accordi. «Le multinazionali cinesi e le aziende americane stanno da tempo rafforzando le loro relazioni col Mozambico, ma adesso hanno altri rivali. I giapponesi per esempio, i quali progettano «to assist in agricultural technology and human resource development through promoting public/private sector partnerships».
È proprio la partnership pubblico-privato (tanto sbandierata e auspicata dai nuovi programmi di cooperazione allo sviluppo, compreso quello italiano) a rappresentare un pericolo enorme per i piccoli, i fragili e i meno attrezzati a fronteggiare i land grabbers.