Un documentario racconta la vicenda della cooperativa Insieme nella cittadina bosniaca di Bratunac, che ha offerto lavoro dignitoso ad oltre 500 donne
di Francesca Rolandi
C’era una volta una cittadina termale, circondata da verdi montagne, in un territorio della Bosnia Erzegovina particolarmente ricco di risorse minerarie. Oggi Srebrenica e l’area circostante sono diventate in tutto il mondo un sinonimo del maggiore massacro perpetrato in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale.
Del denaro iniettato dalla comunità internazionale, in nome del senso di colpa per non avere impedito il genocidio, poco è rimasto sul territorio, le attività economiche sono ridotte al midollo e molte persone sopravvivono di un’economia di sussistenza dalla quale già i loro nonni si erano resi autonomi, trovando lavoro nelle fabbriche.
In questo contesto spicca con particolare forza l’esempio virtuoso della cooperativa Insieme-Zajedno, che dal 2003 crea lavoro per oltre 500 dipendenti, in gran parte donne, che si occupano della raccolta e della lavorazione dei piccoli frutti, con una paga dignitosa, che permette loro di guardare avanti.
A raccontare questo progetto virtuoso è il documentario Dert, di Stefano e Mario Martone, che prende il nome da una parola bosniaca di origine turca. Dert, come molti turcismi, è quasi intraducibile in altre lingue.
Come viene spiegato nel documentario, dert è il dolore soffocato, che si ricaccia dentro mentre sulle labbra compare un sorriso.
Nel documentario il dert appare sui volti delle impiegate della cooperativa ma anche in molte delle foto scattate da Mario Boccia, fotogiornalista che all’epoca seguì la guerra di Bosnia, rappresentando anche quello che c’era oltre Sarajevo e che da sempre è coinvolto nelle attività di Insieme.
Il documentario alterna lunghe immagini di una natura serena e rigogliosa, quella intorno a Bratunac dove ha sede la cooperativa, dove però le tracce delle attività umane ricordano spesso il peso del passato: la municipalità aveva una maggioranza di popolazione musulmana prima della guerra, che con lo scoppio del conflitto cercò rifugio a Srebrenica dove trovò la morte.
Alle immagini si alternano le voci dei protagonisti, Rada Žarković e Skender Hot, presidente e direttore della cooperativa, due attivisti convinti che per lavorare alla riconciliazione serva ricostruire una quotidianità.
Il fatto che nella cooperativa lavorino insieme donne serbe e musulmane passa in secondo piano, mentre il vero miracolo, sembra emergere dal documentario, è che molte persone lavorino dignitosamente insieme dove prima non c’era nulla.
Come ricorda Mario, l’importanza nel progetto sta nell’aver creato lavoro, che rappresenta la precondizione per il ritorno. Una volta fatto questo, un tetto crollato si può facilmente riparare.
Ma la politica locale e la comunità internazionale stentano a farlo e si fanno vedere solo nelle auto blindate per la celebrazione del ventennale del genocidio di Srebrenica nel luglio 2015, all’appuntamento della monumentalizzazione della memoria.
Rada sottolinea che la sua identità è prima di tutto quella di donna, pacifista e femminista. Attraverso la sua voce emergono anche quelle delle lavoratrici della cooperativa, che scelgono di non parlare perché non vogliono tornare nel ruolo delle vittime a raccontare il passato. Per il presente invece parlano i lamponi che scorrono sui nastri della cooperativa e si trasformano in succhi e marmellate.