Una gestione di controllo della mobilità dei migranti che si ripete: dopo Idomeni e Calais, ora Belgrado
di Maddalena Avon, tratto da MeltingPot
Agosto 2016, ex stazione ferroviaria di Belgrado
I capannoni dell’ex stazione si estendono in tutta l’area dietro l’attuale stazione degli autobus e dei treni di Belgrado.
Invisibili e imponenti allo stesso tempo, basta attraversare un normalissimo parcheggio delimitato da una sbarra bianca e rossa per accorgersi che lì comincia il mondo degli Invisibili: i migranti e i richiedenti asilo che ormai abbiamo visto nelle miriadi di foto e video diffusi dai media italiani. Volti in lacrime, scarpe ai piedi troppo piccole, sporche di fango.
Meglio ancora quando si riesce a scattare una foto ai corpi nudi mentre si fanno la “doccia”, a gennaio, sotto la neve, a venti gradi sotto zero.
Individui presentati come anime sofferenti bisognose di assistenza e nulla più. Un accanimento fotografico non solo da parte dell’Italia, ma dell’Europa intera. C’è bisogno di storie struggenti da raccontare, di volti stremati da immortalare, per far sì che la comunità internazionale reagisca?
Fumi neri, fuochi accesi, corpi infreddoliti. Si sa, le immagini a volte dicono molto di più delle parole. Ma colpire la sensibilità delle persone non basta per produrre e creare cambiamento. Consapevolezza, azione, coinvolgimento, conoscenza. Questo è ciò che più di tutto manca.
I progetti di autorganizzazione nella capitale serba
Numerosi attivisti della campagna #overthefortress sono presenti sulla rotta balcanica da diverso tempo, staffette volte a fare inchiesta ma anche a costruire solidarietà e complicità all’interno delle “barracks” di Belgrado. È di questo che vorrei si parlasse: di come le barracks siano un luogo di creazione di organizzazione politica collettiva, di dignità estrema e di forme concrete di solidarietà attiva.
Il livello di autorganizzazione è alto: anche prima dell’arrivo dei media e dei volontari – scrivono gli attivisti del collettivo NoBorder – la creazione di attività quotidiane è all’ordine del giorno. Corsi di lingua, reti di pallavolo, partite di cricket e cucina autorganizzata, sono le modalità in cui si vive la vita di ogni giorno in circostanze straordinarie.
Leggo le parole scritte di ritorno da Idomeni, circa un anno fa, e non posso che virgolettarle nell’intento di far cogliere appieno l’analogia con la situazione di oggi:
“Contrariamente a molti dei racconti più mainstream, quindi, quelli di chi ha visto Idomeni con i nostri stessi occhi, sono racconti di un campo quasi interamente autorganizzato dove la dignità è molta più che la disperazione e dove l’unica cosa chiara a tutt* è la farsa messa in atto dall’Unione Europea. Un primo punto, dunque, fondamentale: nessuna tragedia ad Idomeni, dove pure, certo, si viveva nelle tende e alle volte si faceva la fila per il cibo, ma dove più della disperazione i sentimenti predominanti erano l’indignazione, la speranza e la rabbia”.
Un progetto come quello di No Name Kitchen è a mio avviso un chiaro esempio di come la più comune attività di distribuzione di cibo possa diventare un’esperienza direi unica di complicità e autorganizzazione.
La comunità delle barracks e degli attivisti si uniscono in un concerto fatto di mestoli che battono sui barili, di danze nel buio… e di pasti decisamente al di sopra della media, cucinati dalla comunità delle barracks. E anche il controllo della fila diventava un’attività quasi superflua…
Dejavu: l’annuncio dello sgombero
Il 5 maggio il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha annunciato il trasferimento dei migranti nei centri ufficiali della Serbia. Secondo quanto dichiarato da Nenad Ivansevic, segretario di Stato del Ministero, lo sgombero dell’intera zona sarà effettuato entro 20 giorni.
I migranti e i volontari delle barracks però, vedono da mesi ormai l’avvicinarsi delle ruspe: ha avuto inizio infatti la costruzione del “mostro immobiliare” Waterfront, un progetto di 3.5 miliardi di euro firmato dal governo serbo e la società degli Emirati Arabi Eagle Hills che include appartamenti ed uffici di lusso, centri commerciali e hotel.
Uno sgombero annunciato sin dall’inizio, dunque. Esso è chiaramente incoraggiato dal progetto Waterfront, ma allo stesso tempo è palese l’intenzione del governo serbo: governare la mobilità dei migranti, limitare la possibilità di autorganizzazione e cooperazione, impedire qualsiasi forma di solidarietà attiva e confinare gli abitanti delle barracks in campi chiusi.
Stare nelle barracks è sempre stata una scelta.
Una scelta fatta per ribadire la propria libertà di movimento e di autorganizzazione, con la complicità dei volontari ed attivisti presenti che fanno – come molti hanno fatto ad Idomeni – un lavoro molto più legato alla solidarietà ed all’autorganizzazione, piuttosto che alla mera assistenza umanitaria.
11 maggio: ultimi aggiornamenti
L’apertura delle danze è segnata dal più classico trasferimento “volontario” nei centri ufficiali Serbi: gli autobus carichi di migranti arrivano e partono dalle barracks ormai da giorni, ponendo fine così ad ogni possibilità di autorganizzazione e cooperazione in Serbia. Le tende da campeggio all’interno delle baracche stanno venendo distrutte dagli ufficiali di polizia.
Agli attivisti e volontari è stato detto di interrompere la distribuzione di cibo: veleno per topi e pesticidi sono stati spruzzati all’interno delle barracks e della zona cucina per impedire la preparazione dei pasti e per allontanare le persone dalla zona.
Questa mattina alle 7.30 è cominciata la demolizione del primo edificio, denominato A, quello in cui la comunità delle barracks preparava la cena con il contributo degli attivisti di No Name Kitchen. I migranti già trasportati nei giorni precedenti nei centri ufficiali hanno il divieto di uscire, onde evitare l’organizzazione di atti di resistenza allo sgombero. Ancora una volta, dopo Calais, dopo Idomeni, la soluzione proposta da parte dei governi è il confinamento nei campi ufficiali, sovraffollati e collocati in aree remote del Paese.
“Il piano del governo serbo è quindi perfettamente in linea con le pratiche europee” scrivono ancora gli attivisti serbi. Allontanare i migranti, tenerli lontani dalla vista e renderli nuovamente ed irrimediabilmente Invisibili, in isolamento e senza possibilità di organizzazione, protesta o confronto è qualcosa che succede continuamente, lungo la Balkan Route e negli altri Paesi europei.
La sensazione di impotenza davanti alle ruspe che spianano la zona, è grande. Tutte le barracks sono state distrutte e le persone allontanate, le tende degli internazionali smontate.
Le frontiere d’Europa, un’altra volta, sono state chiuse in faccia ai migranti e richiedenti asilo che sono quindi bloccati in Serbia da mesi. Con violenze, detenzioni, push-backs illegali ed illegittimi, deportazioni interne contro la loro volontà.
The game, la partita, è un gioco che va avanti da mesi, al contrario di quello che il Presidente del consiglio Europeo fa credere [1], lodando paesi come la Bulgaria, la Macedonia e la Slovenia per la loro ammirevole attività di controllo dei confini.
Chi glielo dice a Tusk che la Bulgaria picchia e detiene i migranti, che la Macedonia ha un sistema di integrazione inesistente, e che la Slovenia erige muri di filo spinato proveniente dall’Ungheria?
[1] http://statewatch.org/news/2017/apr/eu-tusk-slovenia-bulgaria.htm