Iran: vince Rouhani. E ora?

Un’analisi del voto iraniano e delle sue ripercussioni, interne ed esterne

di Annalisa Perteghella, tratto da Ispi Online

Hassan Rouhani è stato rieletto alla presidenza della Repubblica islamica di Iran. Raccogliendo un consenso di 23,5 milioni di elettori, pari al 57% dei voti totali, ha sconfitto il rivale Ebrahim Raisi, che si è “fermato” a 15,7 milioni di voti (38%).

Un’elezione, questa, che ha fatto registrare un’affluenza elevata (41 milioni di voti registrati, poco più del 73%). Come interpretare questo risultato?

Una premessa doverosa è che il risultato non era per niente scontato alla vigilia delle elezioni: Ebrahim Raisi, candidato del fronte conservatore, era percepito come il candidato della Guida suprema Ali Khamenei, pur non avendone ricevuto l’endorsement ufficiale, e degli apparati di sicurezza legati al potente Corpo dei guardiani della rivoluzione (pasdaran).

La sua repentina ascesa nei ranghi della Repubblica islamica, con la nomina, il marzo scorso, a capo della potentissima fondazione Astan Qods Razavi che gestisce le entrate economiche del santuario dell’Imam Reza a Mashhad, era stata interpretata come una chiara promozione nei circoli di potere più stretti della Repubblica islamica.

Addirittura come un trampolino di lancio – insieme a una eventuale vittoria alle elezioni presidenziali – verso la successione di Khamenei nei ruolo di Guida suprema.

Una campagna di promozione, quella dello “stato profondo” in favore di Raisi, che sarebbe dovuta servire a far dimenticare, o perlomeno passare in secondo piano, l’oscuro passato del candidato conservatore, quasi interamente trascorso nel settore giudiziario, e il ruolo ricoperto nelle “commissioni della morte” che nel 1988, nel travagliato passaggio dalla prima alla seconda repubblica iraniana, mandarono a morire centinaia di oppositori politici.

Il generale senso di insoddisfazione e disillusione di molti iraniani per la mancata redistribuzione dei tanti benefici promessi dall’allentamento delle sanzioni avrebbe poi dovuto fare il resto: durante una campagna elettorale incentrata quasi interamente sul tema dell’economia, i conservatori sono stati estremamente abili nel dipingere Rouhani come colui che aveva di fatto svenduto il glorioso programma nucleare alle potenze straniere (in primis all’”arroganza”, gli Stati Uniti) senza ricavarne in cambio benefici tangibili per il proprio paese.

Tutto questo però non è bastato a fermare la corsa di Rouhani verso la riconferma, e soprattutto non ha convinto i milioni di elettori iraniani che in questa tornata elettorale, considerata un referendum su due diverse visioni di Iran, hanno chiaramente dimostrato di appoggiare l’approccio graduale, pragmatico, del presidente in carica, la sua politica di riforme, seppur graduali, e soprattutto la fine dell’isolamento internazionale e la fuoriuscita dell’Iran da quel ruolo di paria nel quale era stato relegato quando la questione nucleare aveva monopolizzato e securitizzato il dibattito pubblico sull’Iran.

Questo dato è estremamente indicativo del fatto che, contrariamente a quanto spesso si pensi, in Iran le elezioni contano.

Pur ben lungi dall’essere libere e corrette (si ricordi il ruolo di censura dei candidati affidato al Consiglio dei guardiani), esse rappresentano uno straordinario momento di democrazia per una popolazione che ha imparato a muoversi all’interno degli spazi di libertà concessi dal regime.

Ulteriore osservazione: nonostante il decisore ultimo della politica iraniana sia la Guida suprema, la figura del presidente in Iran conta: si pensi a quanto sono state diverse tra loro le presidenze Rafsanjani, Khatami, Ahmadinejad e ora Rouhani.

Il ruolo di presidente è un ruolo delicatissimo – ci si muove all’interno delle linee rosse del sistema – eppure si è in grado di dare una certa forma alla politica pubblica, un certo indirizzo al sistema; in definitiva, si fa politica.

Numerosi sono stati nei giorni scorsi gli appelli dei cosiddetti falchi della diaspora (iraniani emigrati che avocano il regime change) a non recarsi alle urne: esercitare il diritto di voto, secondo loro, avrebbe significato continuare a legittimare un sistema che, come sopra ricordato, è lungi dall’essere libero e corretto.

Eppure anche queste voci sono rimaste inascoltate: gli iraniani hanno votato in massa e con entusiasmo, consapevoli del fatto che l’unico cambiamento potrà avvenire non per tramite di una rivoluzione violenta bensì attraverso una graduale opera all’interno del sistema.

A contribuire all’elevata affluenza è stata con ogni probabilità anche la consapevolezza del fatto che l’astensione ha storicamente favorito gli ultra-radicali, come accaduto nel 2005 quando, sull’onda della disillusione per la mancata “rivoluzione” di Khatami, un’elevata estensione ha consegnato il paese a Mahmoud Ahmadinejad.

Cosa attendersi ora? Il primo punto all’ordine del giorno nell’agenda di Rouhani rimane l’economia: durante il suo primo mandato l’inflazione si è ridotta (dal 40% nel 2013 al 7,5% nel 2016), il pil ha ripreso a crescere (da -5,8% nel 2013 a +7% nel 2016) ma la disoccupazione resta un problema endemico e l’intera struttura economica del paese necessita di serie e profonde riforme se si intende trasformare in realtà le numerose manifestazioni di interesse da parte degli investitori occidentali che nei mesi successivi alla firma dell’accordo sul nucleare si sono recati in massa a Teheran per finalizzare Memorandum of Understanding.

Gli ostacoli che Rouhani ha incontrato nei mesi scorsi sono destinati a rimanere, se non a peggiorare, nei prossimi mesi: in primis la permanenza delle sanzioni primarie statunitensi (quelle non toccate dall’accordo), alle quali con ogni probabilità si aggiungeranno nuove sanzioni relative al programma missilistico e alle “politiche di sponsorizzazione del terrorismo internazionale”, per le quali i Congressmen statunitensi e lo stesso Trump hanno già annunciato mano pesante.

Sono due i principali ostacoli che Rouhani incontrerà sulla propria strada: da una parte l’opposizione di conservatori e ultra-radicali, che controllano saldamente apparati di sicurezza e potere giudiziario. Dall’altra, il ritrovato isolamento nella regione, con l’asse saudita-israeliano benedetto proprio in questi giorni da Trump.

L’Iran e Rouhani hanno dalla loro l’appoggio dell’Unione europea – Mogherini è stata tra i primi leader stranieri a congratularsi con il presidente per la sua rielezione – ed è necessario che tutti i paesi membri sostengano lo sforzo diplomatico in atto tramite l’ufficio dell’HRVP per portare attorno al tavolo negoziale tutti i paesi della regione, dall’Iran al Golfo, per arrivare a una soluzione condivisa delle numerose crisi aperte nella regione.

Il rischio però è che un’Arabia Saudita galvanizzata dal ritrovato appoggio americano dopo il gelo obamiano percepisca nei propri calcoli strategici che la carta dell’ostilità all’Iran sia al momento più vincente rispetto a quella dell’appeasement. Vi è però da notare che, con una vittoria di Rouhani – il presidente che cerca il dialogo – per l’asse Usa-Arabia Saudita-Israele sarà molto difficile “vendere” a potenze quali Russia, Cina, India e Unione europea la necessità di isolare nuovamente l’Iran.

Ci si può aspettare dunque da Rouhani un tentativo di proseguire con l’agenda di riforme, pur nella navigazione a vista e nella continua ricerca del compromesso resa necessaria dal complicato fazionalismo politico interno.

A questo si aggiunge l’incognita della relazione con la Guida suprema, che pur avendo appoggiato l’accordo sul nucleare (che altrimenti non sarebbe stato possibile), è tornata negli scorsi mesi a elogiare “l’economia della resistenza”, una dottrina alla quale Khamenei è particolarmente affezionato e che vedrebbe l’Iran sopravvivere e proliferare pur senza gli investimenti e gli aiuti occidentali.

A questa incognita si somma poi la madre di tutte le incognite: la questione della successione alla Guida suprema. Non vi è dubbio che con queste elezioni gli equilibri politici si siano spostati a favore della fazione conservatrice-pragmatica che, dopo la morte di Hashemi Rafsanjani nel gennaio di quest’anno, sembra ora fare capo proprio a Rouhani.

Ricordiamo che anche il parlamento, dopo le elezioni del febbraio 2016, presenta una maggioranza di pragmatici e riformisti, così come l’Assemblea degli esperti, ulteriore organo elettivo incaricato formalmente di nominare la Guida suprema.

Rebus sic stantibus, la fazione conservatrice-pragmatica potrebbe influenzare il processo di selezione della prossima Guida, anche se gli scenari sono apertissimi: dalla controffensiva conservatrice (con Ebrahim Raisi che, pur sconfitto a queste elezioni, ha ottenuto comunque una percentuale tale da consentirgli di “salvare la faccia”) al colpo di stato silenzioso dei militari se dovessero percepire che la transizione rischia di mettere in pericolo la Repubblica islamica.

In conclusione, sono molti e diversi i motivi per cui questa elezione presidenziale è stata importante, così come sono molte e diverse le incognite che si aprono ora per Rouhani e per l’Iran stesso.