Margini dell’etnografia, etnografie dei margini
di Giacomo Pozzi
Queste brevi conclusioni della serie di narrazioni curate dal Laboratorio Lampo su Q Code Town si fondano su un paradosso. E lo comprendo proprio ora mentre cerco di scriverne.
Queste conclusioni si basano infatti sul tentativo di dare centralità a un concetto periferico, di focalizzarsi su un oggetto sbiadito, di concentrare lo sguardo su ciò che invita a decentrarlo. Mi riferisco all’idea, alla pratica e all’immaginario legati alla nozione di margine. A pensarci bene, tutta la serie proposta è sia un paradosso che un margine. Un Lampo a ciel sereno, appunto.
Mi sorprende sempre il potere dello sguardo etnografico di far emergere le categorie dall’esperienza. In questo senso, le categorie utilizzate da coloro che praticano l’etnografia per interpretare i mondi che attraversano non sono dei grossi contenitori dove stipare più oggetti possibili, ma configurazioni complesse che si espandono e si restringono a seconda della loro articolazione. Che questo piaccia o meno. Se c’è infatti una differenza sostanziale tra le discipline fondate su una ricerca qualitativa e le altre discipline umane, a esclusione della filosofia, credo, è il desiderio epistemologico di (saper) attendere la costruzione di un orizzonte, più che il tentativo ansiogeno di raggiungerlo.
L’orizzonte è ciò che si incontra nella quotidianità, più che la volontà interpretativa di immaginare qualcosa che probabilmente non esisterà mai, se non nelle speculazioni della ricerca. Secondo questa prospettiva, i margini sono ciò che più di prezioso possiamo desiderare. Instabili, densi, nebulosi e fertili, raccontano molto più di quanto nascondano.
Nella serie proposta, emergono diverse forme di margini. I primi margini riguardano proprio i soggetti narranti stessi. Come esplicitato nell’articolo di apertura, il laboratorio Lampo rappresenta un insieme instabile, precario e in continua trasformazione di ricercatrici, attiviste, etnografe.