Un’analisi di Paola Rivetti
di Paola Rivetti, Dublin City University
Articolo pubblicato in originale e in inglese sul blog Presidential Power
Venerdì 19 maggio, gli iraniani di Iran e quelli della diaspora hanno riconfermato Hassan Rouhani alla presidenza della repubblica. La campagna elettorale che ha preceduto le dodicesime elezioni presidenziali dalla rivoluzione del 1979 è stata particolarmente controversa, e dal primo dibattito televisivo tra i candidati i toni sono stati duri.
“Iran, ancora una volta ” (Iran dobare) è lo slogan post-elettorale che i sostenitori di Rouhani hanno scelto. Anche se riconfermato, ancora una volta, Rouhani dovrà affrontare una serie di sfide che richiedono un nuovo approccio.
In particolare, dovrà navigare e sopravvivere le divisioni interne all’elite per far sì che l’immagine nazionale proiettata all’estero sia credibile – fondamentale visto che il governo dovrà fare i conti con questioni spinose come il destino dell’accordo sul nucleare raggiunto nel 2015, i rapporti con gli Stati Uniti di Donald Trump e la questione siriana.
Rouhani dovrà tendere la mano ai suoi avversari conservatori, richiamando alla conciliazione e all’unità, ma ciò avrà un prezzo. Cosa dovrà sacrificare il presidente alla stabilità nazionale? E chi pagherà il prezzo di quel sacrificio?
Il contesto
L’Iran è una repubblica presidenziale dal 1989, quando una riforma costituzionale e un referendum trasformarono il suo sistema parlamentare. Una delle conseguenze della riforma fu di opporre un contro-potere alla più alta carica nella Repubblica islamica. Sebbene infatti, costituzionalmente, il rahbar o Leader Supremo sia più potente del presidente e possa contare su una legittimità religiosa e politica, il presidente ha sempre agito come contrappeso.
Come scritto da Jason Rezaian, “non importa chi vincerà le elezioni, litigherà in ogni caso con il rahbar”. La rosa delle questioni problematiche varia dalla politica estera e l’economia, a questioni relative al ruolo della magistratura nel reprimere il dissenso o nel chiudere i giornali e la stampa critica dell’elite al potere. Dal 1989, polemiche e scontri si sono ripetuti, indipendentemente dall’affinità ideologica tra il Leader e il presidente.
Durante il primo mandato di Rouhani (2013-2017), lo scontro tra lui e il rahbar Ali Khamenei si è principalmente concentrato sull’accordo nucleare. Anche se tale accordo venne raggiunto grazie al supporto di Khamenei (che ha l’ultima parola in materia di politica estera), esso venne criticato dal rahbar stesso e dai conservatori in quanto avrebbe “svenduto l’Iran all’Occidente”.
Questa tesi si riferisce soprattutto alle condizioni che l’Iran aveva dovuto accettare per poter andare avanti con il proprio programma nucleare. In particolare, le limitazioni alle attività e al commercio missilistici scatenarono l’ira dei pasdaran (l’apparato paramilitare sotto il controllo del Leader Supremo), fortemente coinvolti in tali attività.
Oggi sappiamo che la guida suprema Khamenei continuerà a litigare con un presidente che già conosce, Rouhani, che ha ricevuto il 57.31% dei voti espressi. Il rivale principale di Rouhani, Ebrahim Reissi, ha totalizzato il 38.29% delle preferenze.
Mostafa Mirsalim, conservatore ed ex ministro della cultura, ha ricevuto l’1,16% dei voti e Hashemi-Taba, vice-presidente riformista di Rouhani, lo 0,52%. Con un’affluenza pari al 70%, Rouhani ha ricevuto più di 23 milioni di voti, mentre Reissi meno di 16 milioni. Le stazioni di voto hanno notevolmente ritardato il proprio orario di chiusura al fine far votare tutti gli elettori, che hanno aspettato ore in fila per esprimere il proprio voto.
Ebrahim Reissi era il candidato preferito di Khamenei. Ex procuratore generale, fu coinvolto nelle esecuzioni di massa dei dissidenti di sinistra durante gli anni ‘80. Egli è il guardiano del santuario dell’Imam Reza nella città di Mashhad, che viene gestito tramite la fondazione Astan-e Quds Razavi, una delle fondazioni più potenti e ricche di tutto il mondo musulmano. Reissi è stato nominato per quel ruolo da Khamenei stesso.
Reissi è normalmente considerato intransigente in politica estera e, dal punto di vista sociale e di costume, un conservatore. È importante tenere a mente che tutti i candidati sono, in misura diversa, degli insider del regime. Infatti, essi devono passare il vaglio del Consiglio dei Guardiani, che ne valuta l’idoneità proprio in questo senso.
Rouhani non fa eccezione, e ha per decenni servito il regime in posizioni chiave. E’ stato un membro del parlamento, vice-portavoce del parlamento e segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale per 16 anni, una posizione che spiega i suoi successi diplomatici.
Infatti, il Consiglio supremo ha preso parte ai negoziati sul programma nucleare dell’Iran dal 2002, ovvero dall’inizio, insieme a diplomatici di paesi occidentali e ai rappresentanti dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica.
Rouhani fu nominato in quella posizione dall’ex presidente Hashemi Rasfanjani (1989-1997) e riconfermato da Mohammad Khatami (1997-2005). Si dimise tuttavia quando Mahmoud Ahmadinejad fu eletto presidente (2005-2013). Nel 2013, Rouhani si presentò come il candidato moderato, proponendo una politica di moderata apertura verso l’esterno e di moderata tolleranza del dissenso.
Qualunque cosa questo volesse dire, Rouhani ebbe successo nel calmare la paura di un imminente attacco bellico contro l’Iran che, dopo la crisi del 2009 (la repressione del cosiddetto “movimento verde”, ovvero del movimento di protesta che per mesi di ribellò alla rielezioni di Ahmadinejad a presidente, considerando le elezioni truccate) e otto anni di presidenza Ahmadinejad, aveva toccato dei minimi storici in termini diplomatici.
Sono tutti insider ma, tuttavia, delle differenze esistono. Prima di tutto, la politica interna iraniana è fortemente divisa, anche se si possono identificare due principali raggruppamenti: i conservatori, che godono del sostegno del Leader Supremo e degli apparati di sicurezza, e i riformisti, che tradizionalmente hanno goduto del sostegno del settore semi-privato dell’economia, e delle élite tecnocratica e culturale del paese.
Questi gruppi si sono tuttavia sovrapposti e incrociati nel corso degli anni. Ad esempio, la lista elettorale che ha sostenuto il governo di Rouhani alle elezioni parlamentari nel 2012, chiamata “Omid” (speranza), includeva anche conservatori tra i propri candidati. Ali Larijani, il portavoce conservatore del Parlamento, e Ali Akbar Nateq Nouri, altro conservatore ben noto, hanno pubblicamente dichiarato il loro sostegno a Rouhani e alla sua politica “moderata”.
La campagna elettorale del 2017 è stata carica di elementi di conflitto. Per esempio, i candidati avevano divergenti politiche economiche e idee sul come stimolare l’economia. Mentre i candidati conservatori hanno fatto ricorso alla promessa di aumentare i sussidi economici, Rouhani ha denunciato tali promesse come irrealizzabili, rimanendo fedele alla propria agenda neo-liberista ed esterofila di attrarre investimenti diretti dall’estero e continuare con le privatizzazioni.
Anche l’approccio dei candidati alla politica estera ha presentato importanti differenze. Rouhani ha sottolineato la necessità di ulteriore impegno diplomatico verso l’occidente mentre Reissi ha condannato le politiche del precedente governo come asservite agli interessi occidentali.
Non si tratta però di uno scontro ideologico. Si tratta di economia: mentre Rouhani promuove la presenza di capitali stranieri nel paese, da attrarre grazie ad un mix di diplomazia e relazioni pubbliche, Reissi si oppone perché egli rappresenta quegli imprenditori e quel settore economico che trae beneficio dalle politiche di privatizzazione e dall’assenza di capitali stranieri.
Anche in termini di politica interna, le posizioni erano diverse. Valori quali la sovranità e l’indipendenza nazionali sono stati enfatizzati da Reissi e dai suoi sostenitori, mentre Rouhani e i suoi sostenitori si sono concentrati su temi diversi come i diritti civili e la libertà dei prigionieri politici.
Ne è un esempio questo video, in cui l’attrice Baran Kosari nomina, durante un evento in favore di Rouhani, il nome di prigionieri politici, quali Bahareh Hedayat e suo marito, e di vittime della violenta repressione delle proteste del 2009, come Sohrab Arabi, un giovane di 19 anni morto mentre in custodia da parte delle forze dell’ordine. Un altro video mostra i sostenitori di Rouhani celebrare la sua vittoria elettorale in strada, scandendo lo slogan “Atena Daemi deve essere liberata”. Daemi, una giovane donna, è stata incarcerata nel 2014 con l’accusa di “insultare il il Leader” ed ora è in sciopero della fame.
Rouhani ha sapientemente usato queste domande di libertà e giustizia, come fece anche durante la sua campagna elettorale del 2013. Secondo il giornalista Borzou Daraghi, Rouhani ha cercato di presentarsi come il candidato “anti-sistema”, ironico considerando il suo ruolo fondamentale nella costruzione dello stato post-rivoluzionario. Tuttavia, come ha sottolineato Suzanne Maloney, è molto improbabile che le critiche di Rouhani si traducano in politiche volte, ad esempio, a tutelare i diritti degli imputati o degli incarcerati, o il diritto di parola e di inchiesta dei giornalisti, o i diritti dei lavoratori.
Più che altro, Rouhani sembra aver cercato di giocare la carta dell’outsider, come, in un contesto pur diverso e con contenuti molto divergenti, hanno fatto anche Donald Trump e Marine Le Pen durante le loro campagne elettorali.
Un nuovo sistema all’orizzonte?
Nel corso della campagna, i candidati Eshaq Jahangiri e Mohammad Bagher Ghalibaf si sono dimessi rispettivamente a favore di Hassan Rouhani ed Ebrahim Reissi.
Jahangiri è il vice-presidente di Rouhani, mentre Ghalibarf è l’attuale sindaco di Teheran. Le due candidature avevano un significato diverso. Mentre è usuale che personalità deboli si candidino per aumentare l’attenzione popolare verso le elezioni per poi ritirarsi a favore del candidato più forte, come è stato nel caso di Jahangiri, la candidatura di Ghalibaf non serviva a tale scopo, bensì si trattava di una candidatura “reale” – almeno a fino quattro giorni prima dell’election day.
Ghalibaf ha corso tre volte per la presidenza, senza grande successo. Tuttavia, egli è stato eletto sindaco per due volte dal consiglio comunale di Teheran e ha dedicato i suoi mandati (2005-2017) allo sviluppo delle infrastrutture civili della città, come la costruzione di un’efficiente rete della metropolitana e la riqualificazione del sistema stradale.
Il sindaco ha inoltre sviluppato il settore delle costruzioni a un livello senza precedenti, secondo alcuni, facendo di Teheran una città dove la vita è diventata quasi insopportabile a causa del sovra-popolamento e del livello di inquinamento da automobili. Ghalibaf infatti ha ricevuto critiche per non aver saputo gestire il problema del traffico stradale e per aver depredato qualsiasi spazio pubblico, messo prontamente in vendita per la costruzione di centri commerciali o altri esercizi.
L’altra faccia della medaglia, è che ha dimostrato di saper attirare enormi investimenti nella capitale.
Non sorprende, quindi, che il suo elettorato sia anche composto da gruppi di tecnocrati e imprenditori che hanno tratto enorme vantaggio dal suo lavoro e che potrebbero guardare con favore all’integrazione dell’Iran nel mercato libero internazionale, considerata come una opportunità di espansione finanziaria.
La decisione di Ghalibaf di abbandonare la corsa presidenziale, commenta Farzan Sabet, ha rappresentato il tentativo di unificare il voto conservatore dietro un singolo candidato, Reissi.
Il blocco conservatore nel Parlamento e nelle istituzioni della Repubblica islamica è stato, negli ultimi anni, sempre più frammentato. La presidenza Ahmadinejad e la sua politica estera, il piano di privatizzazioni, la crisi del 2009 e la violenta repressione che si è abbattuta sul “movimento verde” hanno creato conflitti interni multipli. La decisione di Ghalibaf era quindi destinata a riunirli dietro Reissi.
Tuttavia, è probabile che parte dell’elettorato di Ghalibaf abbia preferito Rouhani. Questi ha infatti negli ultimi anni lavorato per consolidare la propria base elettorale nel settore semi-privato e imprenditoriale, indipendentemente dall’orientamento ideologico.
Non è una coincidenza che durante le prime settimane della campagna elettorale, i riformisti e i sostenitori di Rouhani abbiano lanciato una iniziativa di “dialogo nazionale” con i “conservatori moderati” – iniziativa che il Leader Supremo ha prontamente etichettato come impraticabile. L’obiettivo era quello di isolare i conservatori più radicali e rafforzare i moderati del campo conservatore e del campo riformista, formando una base di sostegno elettorale per Rouhani più forte e cross-factional.
La rielezione di Rouhani, quindi, rafforza la posizione del presidente vis-à-vis la guida suprema Khamenei. La rivalità tra i due sta alimentando il dibattito nel paese circa la possibilità di una riforma costituzionale.
Politici e analisti hanno infatti suggerito che nel paese ci sono troppi centri di potere che competono, rendendo la governance e il processo di decision-making disfunzionali. Coloro che poco meno di trent’anni fa hanno sostenuto la necessità di un sistema presidenziale, oggi sostengono il contrario. Eliminare la presidenza, concentrare il potere esecutivo nelle mani del leader e mantenere la funzione legislativa nel parlamento risolverebbe, dicono, i problemi della Repubblica islamica.
Questa proposta è sostenuta da Rouhani. È probabile infatti che Rouhani aspiri a diventare il prossimo Leader, considerando che Khamenei è ormai anziano e, secondo alcuni, gravemente malato. La proposta è sostenuta anche da Khamenei, che vede solo benefici per la sua posizione, continuamente sfidata dai presidenti.
Il ritorno a un sistema parlamentare eliminerebbe anche le elezioni presidenziali, che tradizionalmente sono un momento delicato per la Repubblica islamica. Le elezioni presidenziali infatti mobilitano tutta la società, potenzialmente producendo instabilità politica e le condizioni necessarie per rivolte e proteste, come avvenne nel 2009.
Cosa aspetta Rouhani?
Rouhani dovà far quadrare il cerchio in una serie di ambiti, a partire dalla politica estera. L’avversione statunitense non è un fatto nuovo per l’elite di Teheran (ostilità confermata durante la visita di stato di Trump in Arabia Saudita il 20 maggio). Essa tuttavia può avere implicazioni nuove oggi, nel contesto della crisi siriana e regionale.
Infatti, resta da vedere quale sarà l’impatto del riavvicinamento tra Washington e Mosca, in particolare per il ruolo anti-israeliano dell’Iran in Siria e nell’area. La Russia e Israele infatti, intrattengono già un florido commercio di armi e collaborano militarmente in Siria, e la riscoperta affinità tra Mosca e Washington potrebbe rafforzare l’asse Mosca-Tel Aviv indebolendo quello con Teheran.
In politica interna, nonostante le circostanze sfavorevoli, l’elezione di Rouhani potrebbe riunire il fronte conservatore. Questo potrebbe accadere se Rouhani scontentasse una parte più ampia del fronte conservatore con la sua politica estera e se fallisse nel distribuire “equamente” i dividendi derivanti dal piano di privatizzazione.
L’indebolimento del governo Rouhani e il rafforzamento del fronte conservatore potrebbe compromettere non solo l’integrazione dell’Iran nel mercato globale ma anche la politica estera iraniana. Se lo scontento per l’accordo nucleare e i mancati benefici finanziari si rafforzasse, potrebbe diventare difficile per l’amministrazione di Rouhani negoziare l’avanzamento della trattativa sulle sanzioni con governi ostili, come ad esempio quello statunitense o quello britannico, in modo coerente e credibile.
In conclusione, Rouhani potrebbe anche perdere il sostegno (forse più tattico che intenzionalmente a lungo termine) di quella parte del suo elettorato che lo ha sostenuto per avanzare richieste di diritti politici e sociali, come la liberazione dei prigionieri politici e i diritti dei lavoratori. Non si tratta di una parte trascurabile dell’elettorato di Rouhani, e non si tratta di gruppi sociali contenti dell’operato del precedente governo.
Durante il primo mandato di Rouhani, infatti, il rispetto dei diritti umani non è migliorato, nonostante il miglioramento dell’immagine iraniana all’estero (complici fattori come il successo cinematografico di Ashghar Farhadi). L’accordo nucleare e l’accesso al mercato globali sono infatti avvenuti al prezzo di garantire la stabilità del paese, vale a dire reprimendo tutte le potenziali fonti di instabilità e voci critiche.
L’ulteriore indebolimento dei diritti dei lavoratori e il silenzio sugli abusi del sistema giudiziario e delle forze di sicurezza su attivisti critici del regime, sono stati una triste caratteristica del governo di Rouhani. Le immagini e i video degli iraniani che festeggiano la vittoria elettorale di Rouhani scandendo slogan di libertà e giustizia sociale suggeriscono che la mancata attenzione a questi temi potrebbe trasformarsi in una seria sfida per il governo.