Nel campo profughi in Libano, tristemente famoso per il massacro del 1982, non mancano gli esempi di resistenza
di Serena Tarabini,
foto Mattia Marinolli
Othman, ventiquattrenne palestinese libanese a Chatila ci è nato. Questo sobborgo di Beirut est, creato nel 1951 per accogliere i palestinesi in fuga dall’invasione di Israele, ora è semplicemente fra i luoghi più poveri e malandati della città.
“Guarda in alto : questo è uno dei pochi punti dove puoi vedere il cielo: fra un po’ non lo vedrai più”.
Chatila da lontano appare come un precario castello di carte spaiate prossimo al crollo : il susseguirsi di costruzioni abusive che hanno permesso alla popolazione di raggiungere quota 25 mila in un area di un kilometro e mezzo quadrato: non potendo svilupparsi in orizzontale, il quartiere si è espanso in verticale.
Il benvenuto ce lo dà una montagna di spazzatura in mezzo alla quale pascola un gregge di capre smunte.
Poche decine di metri prima, l’ingresso nascosto da bancarelle di DVD pornografici e chincaglieria dell’adiacente mercato, il luogo dedicato alla strage avvenuta tra il 16 e il 18 settembre 1982: in totale abbandono, è un po’ discarica e un po’ pollaio.
“Lo sistemano solo in occasione dell’anniversario” dice Otmhan mentre increduli osserviamo le gabbie con oche e galline sotto le gigantografie sbiadite dei corpi dilaniati dei bambini di Chatila.
Un numero imprecisato di civili palestinesi, dagli 800 ai 4000, fra cui molte donne e bambini, vennero massacrati dalle falangi maronite libanesi e dall’esercito libanese del sud sotto gli occhi dell’esercito israeliano, complice in tutto e per tutto.
Pochi giorni prima, infatti, si era firmato un accordo per il quale i fedayin, militanti della guerriglia armata palestinese contro lo Stato israeliano, avevano accettato di lasciare il Libano in cambio della garanzia di una forza multinazionale di protezione sulla popolazione palestinese rimasta.
Ma inspiegabilmente le truppe americane, francesi ed inglesi che erano state inviate in seguito all’accordo strappato da Arafat, se ne andarono prima del dovuto.
I padre di Othman è anch’esso nato a Chatila e all’epoca aveva 18 anni: e dentro il suo negozio questo uomo minuto dallo sguardo fiero ci racconterà quell’evento agghiacciante e assurdo in cui civili inermi vennero abbandonati e lasciati nelle mani di una furia cieca.
Di quei due giorni ricorda “ tutto”, e mantiene gli stessi occhi calmi e fermi mentre riporta alla memoria scene da sterminio finale, come la visione del cadavere di quella che era una donna incinta accanto al corpo del figlio che le era stato estratto dal grembo, o di quello di una ragazza che prima di essere uccisa era stata stuprata con una bottiglia.
“Chatila era considerato dagli israeliani una fucina di miliziani in particolare dopo i fatti di Monaco, i cui autori venivano da Chatila” ci dice il padre di Othman.
“Questo non è mai stato un campo come un altro, e per questo Israele ha voluto dargli una lezione”. Ariel Sharon, allora ministro della difesa, aveva dato l’ordine di chiudere ermeticamente il campo e piazzato cecchini sul tetto di ogni palazzo: sotto i loro occhi i falangisti cristiani, in cerca di vendetta per l’assassinio del Presidente libanese Cemayel, il cui padre era fondatore delle falangi, misero in atto le peggiori atrocità.
Il padre di Othman faceva parte di quella che lui chiama “la resistenza palestinese” che dentro il campo si adoperò per dare ai civili delle vie di fuga: assieme a loro fece esplodere un negozio di armi e il caos che ne seguì permise a molti di salvarsi.
“Se non ci fossimo stati noi, il campo oggi non esisterebbe più”.
Dell’orgoglio di quella resistenza continuano a parlare i muri di Chatila, tappezzati di scritte inneggianti alla Palestina e di manifesti con i volti di leader, combattenti, martiri.
Ci addentriamo con Othman per vicoli stretti e maleodoranti e quello che aveva profetizzato si avvera dopo pochi metri: il cielo sparisce. La già debole luce di una giornata grigia e piovigginosa fatica a filtrare attraverso gli edifici accatastati uno sull’altro e con uno spazio fra loro di pochi centimetri.
Quando la distanza fra i muri permette un passaggio, sopra la testa corre un intreccio fittissimo di cavi elettrici e tubi dell’acqua, la ragnatela di allacci abusivi che circonda Chatila e la soffoca. Cavi di tutte le dimensioni, spesso scoperti, seguono percorsi tortuosi e su di essi sgoccialo le tubature forate.
“Quando piove senti le scintille “ dice Orhan alzando le braccia. “ È come essere in presenza di un mostro: in media almeno una persona al mese muore a Chatila a causa di questi cavi: persone che li toccano per dare una sistemata o per creare un nuovo allaccio; l’ultimo incidente è avvenuto meno di una settimana fa”.
Il mostro si accompagna alle fognature malfunzionanti, al fango, ai cumuli di spazzatura, ai detriti di lavori che non finiscono mai, all’odore di combustibili di varia natura usati per riscaldarsi o muoversi su motorini e macchine scalcinate che sfrecciano cariche di materiali e persone, scansando frotte di bambini, nelle strade attraversate dai portatori piegati dal peso del loro carico, da donne velate che entrano ed escono da negozi bui, da anziani ricurvi che non si capisce dove cerchino di andare in queste strade strette senza una piazza, senza un albero, senza un punto sulla quale lo sguardo possa trovare riposo, senza una ragione per credere che qualcuno qui dentro possa essere felice.
Chatila doveva essere una soluzione temporanea per alcune centinaia di famiglie palestinesi che avrebbero dovuto fare presto o tardi ritorno alla loro terra; ora oltre ai palestinesi vi vivono siriani, libanesi, iracheni, pachistani, sudanesi: minimo comun denominatore la povertà. E quando lasci la strada per visitarne le abitazioni, l’inferno continua, anzi, peggiora.
Attraversando una porta che dà direttamente su di un vicoletto buio, ci ritroviamo dentro una casa. Prima abbiamo dovuto scavalcare un asse di legno, “ quello serve a non fare entrare i topi”, sghignazza Orhan.
Dentro, seduti per terra accanto a una stufetta elettrica tutta arrugginita ci sono Mahmud e sua moglie. La stanza è minuscola, il soffitto è basso e non ha finestre, mentre loro sorridono io mi sento soffocare e rimpiango la strada.
Mahmud ha 55 anni, viene da Yarmouk, il campo profughi palestinese alle porte di Damasco che nel 2015 venne occupato dall’ISIS.
La sua storia è la porta d’ingresso nel limbo dei siriani palestinesi: due volte profughi, la loro condizione riesce ad essere peggiore di quella dei profughi siriani e di tutti i palestinesi.
Mahmud è arrivato a Chatila nel 2012, quando i bombardamenti dell’esercito governativo quasi rasero al suolo Yarmouk, uccidendo centinaia di civili.
“La vita nel campo prima che scoppiasse il conflitto era la migliore che ti saresti potuto immaginare. Avevo una casa, lavoravo. Yarmouk era una grande mercato dove tutti venivamo a fare acquisti. Mai avrei pensato un giorno di dovermene andare. Invece è successo. Ora è tutto distrutto, la mia casa non c’è più”.
A Chatila la sua casa sono tre stanzucce che non raggiungeranno insieme i 15 m quadrati, dove vive con la moglie, i figli, i nipoti, in tutto 7 persone. E per quel tugurio paga 250 dollari al mese. Perché Beirut è una città cara.
“Mahmud mantiene la famiglia con lavoretti dentro il campo, perché i profughi palestinesi non possono lavorare in Libano“ dice Othman. Nemmeno lui può lavorare: è laureato in ingegneria in una università libanese, ma non può firmare un contratto. Eppure lui ci dice di essere un “privilegiato”.
“Io sono un PRL, palestinese rifugiato libanese: non ho la cittadinanza libanese, anche se sono nato in Libano, ma sono registrato presso l’UNRWA, quindi ho un documento di identità e una sorta di passaporto libanese che mi permette di viaggiare.
I PRS, i palestinesi rifugiati siriani avevano ottenuto in Siria i loro documenti, che però non sono riconosciuti dal Libano, che nemmeno gli attribuisce nessun tipo di status protetto. Nemmeno le ONG che si occupano dei rifugiati siriani li aiutano perché non sono considerati siriani!”.
Quindi un palestinese che viene dalla Siria, in Libano è come se non esistesse: senza identità, senza via d’uscita.
Mentre parliamo con Mahmud dalla porta che dà sulla strada ogni tanto si affaccia una donna velata e dal volto triste, che è rimasta li tutto il tempo. Ci sta aspettando per portarci a casa sua.
Questa volta si sale: piani e piani collegati da scale precarie, un susseguirsi di pianerottoli di cemento sul quale appoggiano case che sembrerebbero abbandonate se non ci fossero le scarpe fuori dalla porta. Affacciandosi dai pianerottoli, dietro la rete dei cavi si dispiega un sovrapporsi di tetti, antenne, cisterne, immondizia.
Il fatto di trovarci a un piano alto non rende la situazione più sostenibile: entriamo in una casa più grande, con dei soffitti più alti, ma fatiscente, i muri scrostati costellati di macchie di umidità, e con l’odore soffocante del diesel utilizzato per riscaldare, che dà il mal di testa.
Ci aspetta una storia straziante. Amina, questo è il nome della donna , viene anch’essa dal campo di Yarmouk, da cui è fuggita nel 2016 quando l’Isis se ne era per la maggior parte impadronito, peggiorando la già drammatica situazione umanitaria.
“Me ne sono andata quando un bombardamento dell’aviazione siriana ha distrutto la mia casa e ucciso uno dei miei figli; ho raccolto i pezzi del suo corpo con queste mani”. Con un altro dei suoi figli, disabile mentale, ha deciso di andare in Libano.
“Sono rimasta a supplicare sul confine per due giorni, prima di ottenere il permesso di passare. Mio marito mi ha potuto raggiungere solo dopo, quando sono riuscita ad ottenere le carte che ne provavano la grave malattia al sangue. Un altro dei miei figli invece è bloccato a Yarmouk, assediata dall’esercito regolare siriano; sua moglie, con una pallottola nel fianco, è riuscita ad arrivare qui a Chatila”.
È la ragazza giovanissima e silenziosa che sta accanto ad Amina e che ci prepara il caffe, sorridendoci dolcemente.
La vita a Chatila è durissima per Amina: deve pagare un affitto di 350 dollari, il figlio disabile da quando è arrivato non ha messo piede fuori casa, il marito è malato e non può lavorare, lei si arrangia facendo le pulizie in casa di altri. Riceve pochissimi aiuti dalle organizzazioni internazionali.
“Perché i siriani se ne possono andare da qua mentre noi non possiamo?”.
Dalla casa di Amina, Othman ci porta alla sede di “Dreams for a refugee”, l’associazione che lui ha creato.
“Osservate la differenza fra questa strada e le altre: in questi 70 m di strada i cavi elettrici sono convogliati in canaline, ogni edificio ha i quadri dell’elettricità e le scatole antincendio. Abbiamo dipinto gli edifici dello stesso colore e abbiamo messo anche i contenitori della spazzatura, anche se”, ci dice ridendo, “la strada è stretta e le macchine quando passano li fanno cadere ”.
Con l’energia e la forza di volontà che si notano in lui fin dall’inizio, Othman ha messo insieme le sue conoscenze di ingegnere, che in Libano non può utilizzare, e le abilità di altre persone di Chatila per dare inizio alla riqualificazione del quartiere: oltre alla strada hanno ristrutturato anche 60 case.
“Vogliamo creare un quartiere ideale, che non sarà mai perfetto, ma stiamo facendo del nostro meglio. E da altre parti di Chatila ci chiamano per fare lo stesso lavoro, in molti si offrono volontari”.
Ci fa vedere anche le telecamere di sorveglianza, messe per tenere sotto controllo una delle piaghe di Chatila, lo spaccio: “ Di Chatila si dice che è un centro di spaccio, ed è vero: viene venduta qualsiasi droga, e fino a poco tempo fa alla luce del sole.
Ora non è più cosi: l’anno scorso abbiamo organizzato una manifestazione contro lo spaccio, siamo riusciti a portare 4 mila persone per strada, e da quel momento non possono più farlo spudoratamente come prima. È un problema difficile da sradicare, ma almeno gli abbiamo puntato il dito contro.”
Sono tante le attività portate avanti da “Dream for a refugee”: un giardino di infanzia per più di 300 bambini, da un centro educativo che aiuta altri 300 più grandi nelle attività scolastiche, corsi di danza e teatro.
“C’è anche una squadra di calcio di bambini dai 12 ai 14 anni, li alleno io tutti i venerdi! Ho organizzato anche il primo torneo, a cui partecipano anche scuole di altri quartieri di Beirut. Una volta dovevamo giocare con la squadra di un liceo privato molto prestigioso qui a Beirut. Ho portato i bambini in pulmino, mentre gli alunni della scuola arrivavano con le macchine private. Nella partita ci siamo difesi bene, ma abbiamo perso perché i bambini non sono abituati ai campi di dimensione regolamentari, a Chatila è impossibile trovarne uno!”.
Lasciamo Chatila dalla sua strada migliore, quella ristrutturata, in cui si trova anche il negozio del padre di Othman, dove ci ha raccontato del massacro.
La lasciamo dopo aver visto ed ascoltato il peggio, del presente e del passato, ma anche toccato con mano un esempio di resistenza e di dignità, un angolo di luce, non solo metaforico, nel buio di un quartiere dimenticato.