Marocco, il Rif in rivolta

E’arrivata la fine del Regno di Hogra?

di Francesca Tomasso

Essere riffani, in Marocco, vuol dire tante cose. Quando chiedi a qualcuno “di dove sei?”, e ti risponde che viene da Tetouan, da Hoceima, da Imzouren, dal nord, dalle montagne, segue un silenzio pieno di cose non dette, di storia negata, di ribellioni, di repressioni.

Il Rif è quel territorio al nord del Marocco che va da Capo Spartel fino al confine con l’Algeria; è quello stesso territorio che si dichiarò indipendente e repubblicano nel 1921, ribellandosi alla colonia spagnola, trent’anni prima della transizione politica marocchina che porterà il Marocco all’indipendenza nel 1956.

I riffani resistettero cinque lunghissimi anni, e ci vollero tutte le forze della Spagna e della Francia unite per reprimere l’esperimento repubblicano nel sangue: ci vollero i carri armati, l’aviazione e le armi chimiche sui civili per farli scendere dalle montagne.

Il Rif è anche quella parte del Marocco che cercò di nuovo l’indipendenza e l’autodeterminazione nel 1958, dopo gli accordi che il partito dell’Istiqlal aveva firmato con i francesi, facendo enormi concessioni alle potenze coloniali.

Il nuovo potere nazionale, francofono, arabofono, centralista, non aveva niente a che vedere con i riffani, berberi, ispanofoni di seconda lingua, montanari: la colonizzazione si rinnova, facce diverse stesso pugno di ferro, che sia quello della Spagna o che sia quello dell’Istiqlal: per i riffani non cambia molto e decidono di prendere la montagna, di nuovo.

I corpi uccisi, mutilati, violentati, torturati che il potere lascia su quelle montagne per reprimere la rivolta, non si contano.

È anche quella zona in cui, nel 1984, la gente di nuovo prendeva le strade e le piazze nelle “rivolte del pane”, in cui ad essere accusate erano le politiche neoliberiste e gli aggiustamenti strutturali di Hassan II. Il potere di nuovo colpiva feroce e cieco: 14 morti nelle stime ufficiali, incomparabilmente di più in quelle non ufficiali.

Sono giorni, settimane, che le proteste si sono fatte più vivaci. Come nel ’58, come nell’84 i riffani non ci stanno e scendono in strada.

Da ormai sette mesi, da quel 28 ottobre 2016 quando un pescatore, Mohcine Fikri, venne ucciso in modo orribile, la gente del Rif occupa lo spazio pubblico e domanda un cambiamento.

Fikri muore in modo orrendo e brutale mentre cerca di recuperare il pesce spada che gli era appena stato sequestrato dalla polizia. L’indagine che ne segue ricostruisce che Fikri aveva acquistato circa 500 kg di pesce spada al porto di Al Hoceima, la cui pesca è vietata in quella stagione dell’anno ma che in ogni caso aveva superato i controlli delle autorità portuali.

Il pesce viene trasportato in macchina da un amico di Fikri, quando la polizia ferma l’automobile e vede che alla merce manca il foglio che attesta la provenienza e la salubrità del prodotto.

La morte di Fikri

Qualcosa va storto nelle trattative tra le forze dell’ordine e Fikri, che non riesce ad ottenere il via libera e un delegato alla pesca marittima ordina la distruzione del pesce spada. Il pesce viene buttato nel camion dei rifiuti e Mohcine Fikri e i suoi amici si gettano nel cassone, nella speranza di recuperare almeno parte della merce sequestrata.

A questo punto, le forze dell’ordine intimano al conducente del camion trita rifiuti, di attivare le presse al grido di t’han mo, “tritalo”: all’accensione delle presse, gli amici di Fikri riescono ad uscire, Mohcine rimane incastrato.

Il re in persona si affretta a chiedere all’allora ministro degli Interni, Mohamed Hassad, di aprire un’ indagine che il 1 novembre scorso porta all’accusa di omicidio colposo per undici persone davanti al giudice istruttore.

Ma é troppo tardi, le manifestazioni di protesta precedono e seguono i funerali di Mohcine Fikri in tutto il Marocco, a Casablanca, a Rabat di fronte al parlamento, sfilano più di centomila persone.

A al-Hoceima, dove i fatti si sono svolti, i negozi sono chiusi le persone sfilano a piedi fino a Imzouren, a 22 chilometri di distanza, dove a sventolare ci sono le bandiere Amazigh (berbere) e non quelle marocchine.

Complici sono i social, Facebook e Twitter soprattutto, dove inizia a circolare il video di quello che é accaduto e che fanno diventare una storia di ordinaria ingiustizia un caso nazionale. Sette di quegli undici accusati sono stati condannati il 24 maggio con pene che vanno dai cinque mesi agli otto anni di prigione; gli altri sono stati rilasciati e le accuse decadute.

Hogra. Questa è la parola che si sentiva ripetere in tutte le manifestazioni che sono seguite alla morte di Mohcine Fikri. Hogra e l’oppressione del forte sul debole, hogra è l’ingiustizia, il disprezzo, l’abuso di potere, l’intoccabilità dell’autorità, l’umiliazione verso chi – da questi abusi di potere – non può difendersi.

Hogra è l’arbitrarietà della legge, la sospensione dello stato di diritto che lascia spazio alla discrezionalità dell’individuo che indossa la divisa. Hogra è l’autoritarismo e non può esserci autoritarismo senza hogra.

Le proteste si placano ma non si arrestano, e continuano ininterrotte da novembre da oggi, rimanendo sempre pacifiche.

La piazza non chiede solo la fine della hogra, ma anche riforme economiche e sociali, la fine della marginalizzazione economica della regione come strumento di repressione politica, la creazione di posti di lavoro attraverso la valorizzazione e strutturazione del settore della pesca, la costruzione di infrastrutture stradali, ospedaliere e scolastiche nella regione, il rilascio dei prigionieri politici del Rif, l’abolizione di un Dahir (editto reale, ndr) di fatto non più in vigore, emesso in quel ’58 rivoluzionario, che dichiara il Rif un’area “militarizzata” (cioè che autorizza il Makhzen a schierare, con presidi permanenti, una forza militare per scoraggiare e in caso reprimere tentativi di rivolta).

Ma c’è un elemento in più in questi fatti di ordinaria contestazione, cioè la presenza di un mito-motore.

Nel ’58 si chiamava Abd el Krīm el Khaṭṭābī, capo militare e ideologico dell’esperienza repubblicana degli anni ’20 e ispiratore delle rivolte del ’58.

Nel 2017 si chiama Nasser Zefzafi, una figura novecentesca se non fosse che invece è estremamente moderna. Potremmo forse dire un rivoluzionario, uno di quelli come non se ne vedono più. Nasser Zefzafi non si fa cooptare, rimane coerente a sé stesso alla sua gente.

Ha 39 anni, aggiustava telefonini prima di perdere il negozio e tornare a vivere con i suoi. Il movimento che guida, naturale continuazione di quelle rivendicazioni ch chiedevano la fine della hogra, si chiama al hirak al shaabii, cioè movimento popolare e da questa modernità morbosa recupera la necessità della legittimazione religiosa come fondamento delle rivendicazioni sociali.

I punti su cui poggiano i discorsi di Zefzafi sono fondamentalmente tre: identità riffiana, islam, diritti sociali.

Lui che fa irruzione alla preghiera del venerdì, di quel venerdì prima dell’inizio ramadan, per rubare la scena all’imam e accusarlo di essere un venduto, dirgli in faccia che bollare le proteste come rigurgiti secessionisti che attentano all’integrità territoriale del Regno è un discorso reazionario, lui che domanda se “le moschee sono fatte per Dio o per il Makhzen“: una moderna cacciata dal Tempio.

Per lui, Zafzafi, che era uscito illeso da anni di lotte, manifestazioni e sit-it, si apre la caccia all’uomo: il procuratore generale del re, lo stesso giorno, apre un’inchiesta ed emette un mandato d’arresto per “intralcio alla libertà di culto”.

Per due giorni (venerdì e sabato) non si riesce a sapere se Zefzafi è stato preso o no: la popolazione lo protegge, gli impediscono di consegnarsi, le autorità lo braccano e forse riescono ad arrestarlo ma lui riesce a scappare: le voci si susseguono contraddittorie ed avere informazioni attendibili diventa difficilissimo, in un territorio in cui i giornalisti stranieri e autoctoni non vanno.

Alla fine, l’epilogo: Zafzafi viene catturato lunedì 29. La polizia riesce però ad arrestare almeno altri 28 militanti (l’AMDH, l’Association Maorcaine des Droits de l’Homme, parla di almeno 38) con l’accusa di “attentare alla sicurezza interna” e di ricevere, per questo, finanziamenti stranieri da paesi storicamente “amici” delle rivendicazioni del Rif.

Gli arrestati sono più che altro attivisti, giornalisti, alcuni tra i membri più attivi delle proteste e quelli che più di tutti cercavano di mantenere le comunicazioni attive con il resto del Paese e del mondo.

Era il 2010 quando il suicidio di Mohammed Bouazizi in Tunisia, per protestare il sequestro della sua merce da parte delle autorità, innescava la rivoluzione dei gelsomini, e un caso di ordinaria disperazione accendeva le strade facendo leva su un risentimento popolare con decorso decennale.

Ma le similitudini tra nord del Marocco e sud della Tunisia continuano quando si parla di politiche neoliberiste, disoccupazione giovanile, scarto città-campagna e repressione del dissenso.

C’è una differenza però che allontana la traiettoria del Marocco da quella della Tunisia del 2010, e cioè che a capo del governo tunisino c’era un uomo qualunque.

Un alto rango dei militari certo, un uomo del palazzo, un ex ministro dell’interno, un uomo che poteva contare sull’appoggio delle potenze straniere, ma pur sempre un uomo qualunque: Ben Ali era, in fin dei conti, solo il quartogenito di undici figli di una famiglia modesta di un villaggio vicino Sousse.

E anche se il concetto di sacralità del re è stato cancellato nella nuova costituzione marocchina approvata nel 2011, Mohammed VI non è solo un re, ma è anche è l’amir al muminin, il comandante dei credenti, il titolo dei califfi discendenti e successori di Maometto in persona.

Ad oggi, solo Mohammed VI e Abu Bakr al Baghdadi, il califfo di Daesh, si dichiarano comandanti dei credenti. E poi c’è l’altro, il capo di governo, che sia el Othmani o chiunque altro lo succederà. È lui l’uomo qualunque, l’uomo terreno, il politico.

È a lui e al suo governo che vengono addossate le presunte colpe dell’incapacità politica di un sistema che invece lascia i maggiori poteri decisionali al re, sono lui e il suo governo il capro espiatorio di molti malcontenti popolari.

Quando un governo non risponde alle promesse fatte e alle richieste dei cittadini, che succede? Succede che il governo accusato di incapacità verrà punito alle elezioni e non verrà rieletto e ad assicurare questo ricambio basta il meccanismo democratico delle urne, che in Marocco esiste già; o invece succede che, come nel caso tunisino, oltrepassando un inevitabile punto critico, la popolazione insorge e caccia il tiranno.

Cosa succede invece quando, come ad Hoceima, la popolazione ha capito che non basterà non rieleggere lo stesso governo per cambiare le cose perché nel sistema politico marocchino c’è un bluff: il governo viene eletto, ma è il re che comanda, e né l’uno né l’altro sembrano volersi occupare del Rif?

E se anche il re fosse sindacabile, opinabile, né sacro né infallibile, uomo qualunque?

Il re è nudo, e il Rif lo urla dal 1921. Il Rif è quel bambino della fiaba di Andersen che in mezzo alla folla si alza e urla “ma il re non ha nulla addosso!”. L’epilogo della vicenda è nelle mani del resto del Paese, se deciderà di continuare a vedere i vestiti inesistenti del re o se invece urlerà insieme al Rif.

NOTE