Che i fatti, non controvertibili, siano una illusione del senso comune, che la verità, almeno relativamente alle vicende umane, sia una chimera, è stato sospettato fin dalle origini della civiltà occidentale.
Testo e foto di Tano Siracusa
Ben prima della attuale discussione sulla post-verità e sulla scomparsa dei fatti, ancora alla metà dell’ottocento, quando il mimetismo nella rappresentazione visiva della realtà era affidato alle mani degli artisti e alle prime apparecchiature dei fotografi, la tesi che esistessero non i fatti ma le loro interpretazioni accompagnava la parabola delle certezze positivistiche fino al loro declino.
Agli inizi del nuovo secolo Pirandello, che curiosamente mai si è occupato di fotografia ma molto di cinema, avrebbe popolarizzato per il pubblico borghese dei teatri e dei romanzi una versione estrema del relativismo conoscitivo e della conseguente problematicità di ogni forma di comunicazione. La prima rappresentazione di ‘Così è, se vi pare’ è del ’17, mentre infuria la grande guerra: niente ‘fatti’ e nessuna verità oggettiva per il drammaturgo siciliano, solo certezze soggettive, maschere, finzioni, teatro, e il rovello retorico per gli ingenui nel tentativo di persuadere l’altro.
Pur possedendo fin da subito una prospettiva privilegiata, il contributo dei fotografi alla riflessione sui ‘fatti’ e sulla loro evanescenza ha voluto rimuovere alcune evidenze ribadite dalla loro esperienza.
La fotografia sembra rinviare, come una copia, come un riflesso, ad un originale che è poi la sua origine, e con una fedeltà che era apparsa sorprendente nel 1840, quando la somiglianza della copia all’originale veniva affidata al talento di Ingres e dei suoi seguaci.
Bisogna però intendersi bene su cosa sia l’originale e in che misura il confronto sia possibile. Una fotografia documenta innanzitutto la scomparsa di ciò che mostra. Per un fotografo l’originale non è un ‘fatto’ ma il suo ricordo, perché l’evento fotografato è passato, non c’è (più). L’originale è ciò che è stato visto per una frazione di secondo in un mirino, ed è con il suo ricordo che si confronta la copia fotografica. Se l’originale fosse il ‘fatto’, il confronto con la copia sarebbe impossibile.
La ‘verità’ di uno scatto fotografico, in assenza di testimoni, è interamente affidata all’onestà professionale del suo autore. Le stesse tracce o impronte della realtà, il negativo, il file, sono manipolabili, e possono andare smarriti o distrutti (anche intenzionalmente). E’ sempre stato così, e i discorsi attuali sulla cosiddetta postproduzione e sul suo coefficiente di falsificazione potrebbero essere applicati al contesto operativo delle pellicole e della loro conversione in stampe. La fotografia digitale ha solo facilitato il lavoro che si faceva prima in camera oscura, dove si sperimentava già la estrema aleatorietà dei ‘fatti’. Erano sufficienti pochi secondi in più nello sviluppo del negativo per modificare sensibilmente i contrasti, la luminosità, per far sparire particolari che avrebbero potuto risultare visibili. Per non parlare delle mascherature e sovraesposizioni in fase di stampa.
Fatti dunque? No, fotografie, ma da sempre.
D’altra parte gli occhi che vedono una stampa del 1880 sono diversi da quelli che vedono una stampa nel 2017. L’immagine silenziosa e immobile che oggi guardiamo ci appare sempre più dissimile da una esperienza visiva immersa nel flusso temporale, vissuta nell’abbandono contemplativo o nella paura, nel pericolo o in un attimo di felice spaesamento, e quasi sempre di fretta. Un’esperienza che le nuove tecnologie riescono a registrare e riprodurre con un crescente mimetismo.
Traccia del passato, dei famosi fatti, copia dissimile ma non infedele di un originale scomparso, la fotografia può produrre una corretta informazione solo se mantiene il tacito patto con chi la guarda. Un patto che varia nei diversi contesti in cui la fotografia è presente.
Nel caso del reportage, della ripresa fotogiornalistica, il patto è quello di approssimare quanto più è possibile ciò che è stato visto e si è deciso con un clic di far vedere, il ricordo di quella fugace visione che si era scelto di inquadrare.
Gli effetti speciali, l’iperrealismo, la nitidezza allucinatoria che oggi trionfano, soprattutto nell’ambito fotoamatoriale, corrodono lo statuto di copia, accentuandone l’autonomia di immagine in contesti e mercati che non sono più quelli dell’informazione giornalistica.
L’attuale discussione sulla affidabilità dei reporter ripropone in forma diversa ma non meno radicale di un secolo fa la prevaricazione dell’apparire sull’essere (e sul tempo), una prevaricazione molto concreta se riesce ad orientare le opinioni e le relazioni sociali, gli esiti elettorali.
La cattiva e la buona informazione sono separate non dalla fedeltà ai ‘fatti’, ma dal rispetto di una convenzione, quella di non togliere o aggiungere nulla a ciò che è stato ripreso. Chi guarda su una testata giornalistica una fotografia di reportage sa che sta vedendo la massima approssimazione a ciò che il fotografo ha visto nell’attimo dello scatto. Il patto è questo, e la cattiva informazione non lo rispetta.
La stessa fotografia in un contesto diverso, ad esempio pubblicitario o artistico, ha perso il suo statuto di copia e chi la osserva sa che il riferimento alla visione del fotografo è indifferente, che quella immagine può legittimamente essere non solo dissimile ma anche deliberatamente infedele all’originale.
È il contesto e la conformità alle sue convenzioni che specifica e offre il codice di interpretazione a chi guarda e quello operativo di chi realizza le riprese.
Nel reportage fotografico non diversamente da quello scritto.
Anche se qui le distinzioni sembrano più complesse e sfumate, come d’altra parte spiega la diffusione del giornalismo narrativo. Come distinguere un reportage dal Biafra di Goffredo Parise da un suo racconto breve? O un reportage di pesca che Hemingway scriveva per i giornali americani da Parigi da uno dei suoi famosi racconti? Che libro è ‘Un indovino mi disse?’, un romanzo autobiografico, uno straordinario reportage?
Roberto Bolaño diceva che un romanziere non deve inventare nulla, deve solo osservare, guardarsi attorno e ricordare. Garcia Marquez scriveva che il reportage è un genere letterario.