40 giorni di fame e dignità

Ha il sapore del sollievo la dichiarazione che arriva dalla Campagna “Free Marwan Barghouti” a poche ore dalla fine di uno sciopero della fame come non se ne vedevano da anni

di Cecilia Dalla Negra

“L’Occupazione israeliana non ha lasciato altra scelta ai detenuti che digiunare per ottenere diritti basilari. Ma i prigionieri palestinesi hanno vinto”. Ha il sapore del sollievo la dichiarazione che arriva dalla Campagna “Free Marwan Barghouti” a poche ore dalla fine di uno sciopero della fame come non se ne vedevano da anni. Lo ribadisce nella conferenza stampa del 29 maggio Issa Qaraqe, portavoce del Comitato Palestinese per gli Affari dei Prigionieri, che spiega come “l’80% delle rivendicazioni” siano state accolte, in quella che definisce una “trasformazione fondamentale per le loro condizioni di vita in carcere”.

Ci sono volute oltre 20 ore di negoziati e 40 giorni di stomaco vuoto, ma mentre cala il sole sul primo giorno di Ramadan sul fronte palestinese si può cantare vittoria.

Nonostante sui dettagli dell’accordo regni ancora l’incertezza; nonostante le smentite e quella “linea di principio” su cui si è fermata la trattativa della Israeli Prison Service (IPS), l’autorità carceraria israeliana; nonostante il cuore delle violazioni dei diritti umani in carcere – il regime di detenzione amministrativa – resti inalterato. Nonostante nelle settimane di supporto allo sciopero per le strade della Palestina occupata siano caduti nuovi martiri, in quegli scontri ripetuti con costanza nei “venerdì della rabbia”. Nonostante ai check point l’esercito israeliano continui a “sparare per uccidere”, e i raid nei villaggi della resistenza popolare si siano susseguiti con regolarità inquietante, giorno e notte.

Nonostante tutto, dall’interno delle prigioni oggi arriva una vittoria.

Si attende ancora che annunci la fine della sospensione del cibo anche lo storico leader Marwan Barghouti, colui che lo sciopero “della dignità e della libertà” lo aveva pensato, annunciato e infine lanciato lo scorso 16 aprile. E sulle notizie contraddittorie diffuse nelle ultime ore, secondo le quali lo sciopero da parte sua non sarebbe ancora concluso, chiarisce i dubbi la moglie Fadwa, dirigente del partito Al-Fatah e attivista per i diritti dei detenuti da anni.

“Il leader della protesta deve essere l’ultimo a porvi fine, dopo essersi accertato che gli altri non stiano subendo ritorsioni”, ha spiegato in un’intervista, confermata anche dal Comitato per gli Affari dei Prigionieri. “Finché tutti non saranno al sicuro”, sottolineano, “Marwan non ricomincerà a mangiare”. Quei “tutti” che, nelle scorse settimane, avevano superato quota 1.500.

Sin dal primo giorno di una rivolta che subito aveva assunto caratteri storici – per via della sua forma collettiva e della radicale scelta di assumere solo acqua e sale – Barghouti era stato messo in isolamento nel carcere di Jalama, e condotto ad Ashkelon solo nella notte di venerdì, quando l’IPS aveva infine dovuto cedere e condurre il negoziato direttamente con lui.

Eppure, per prendere atto della brutalità del regime in cui sono ad oggi tenuti 6.500 prigionieri, di cui 3mila donne e 300 bambini, basta leggere i dettagli dell’accordo.

Aumento delle visite familiari da una a due volte al mese e installazione di telefoni pubblici per chiamare casa. Visite riammesse per 140 bambini cui erano state completamente vietate. Accordo raggiunto per le 3mila detenute donne, che saranno riunite nel carcere di Hasharon e potranno incontrare mariti e figli, oltre a ricevere materiale per il cucito. Per i bambini saranno migliorate le condizioni detentive e facilitato l’accesso all’istruzione in carcere. Risolto anche il nodo dei trasporti tra le prigioni e le aule di tribunale, tra le principali richieste dei prigionieri: si potranno abbandonare le lunghe e defatiganti procedure attuate sino ad ora, e i detenuti in transito potranno ricevere cibo e carta igienica. Saranno costruite sale cucina nelle prigioni, che andranno a sostituire i “cooking-corner” attualmente presenti nelle celle. Saranno ammessi alcuni piatti a base di verdura, sino ad oggi vietati, così come introdotti attrezzi sportivi. Secondo i dettagli diffusi, inoltre, si sarebbe raggiunto un accordo anche sui luoghi di incarceramento, che dovrebbero essere quanto più vicini possibile a quelli di residenza delle famiglie dei prigionieri, e comunque mai fuori dal territorio occupato in rispetto del Diritto internazionale. Accettata solo “in linea di principio” invece la possibilità di visita anche per i familiari dei detenuti provenienti dalla Striscia di Gaza.

Una lista raccapricciante, perché parla da sola di diritti basilari negati, per ottenere i quali sono stati necessari 40 giorni di acqua e sale per 1.500 persone.

Eppure.

Eppure Israele non è stato capace di smorzarla, questa protesta. Non è stato capace di imporre il cibo ai detenuti, o trattamenti sanitari obbligatori. Non è riuscito ad intaccare lo spirito di chi dopo un mese si diceva “esausto”, ma quanto mai “determinato ad andare avanti”, perché convinto di essere nel giusto. Anche – e forse soprattutto – grazie ad un’eccezionale dimostrazione di solidarietà da parte di una popolazione che continua ad avere il proprio punto di riferimento all’interno delle prigioni. Morale prima ancora che politico, in un contesto nel quale le proteste contro la collusione dell’AP con il sistema dell’Occupazione si erano fatte sempre più pressanti nelle settimane precedenti allo sciopero, con ripetute manifestazioni nelle piazze di Ramallah. E alla luce delle ultime elezioni locali, che avevano visto un sostanziale boicottaggio delle urne da parte dei palestinesi.

Quella stessa Ramallah che per gli scioperi generali dichiarati da Al-Fatah in sostegno al Dignity Strike si era paralizzata, rendendosi città fantasma. Serrande abbassate ovunque, unici ritrovi ammessi quelli in piazza Arafat, dove la tenda di solidarietà con i prigionieri è stata quotidianamente animata da sit-in popolari e azioni creative. Tende che, in oltre un mese di lotta, sono sorte in ogni città e in ogni villaggio della Cisgiordania e a Gaza.

“Lo sciopero della fame è la rappresentazione simbolica di tutto ciò che i palestinesi hanno in comune”, aveva commentato l’analista Ramzi Baroud. Ricordando che dal 1948 i palestinesi arrestati da Israele sono stati 1 milione, 800 mila dal 1967. Vale a dire che il 40% dell’intera popolazione nel corso della propria vita ha vissuto l’esperienza del carcere almeno una volta, o ha avuto – e continua ad avere – familiari e amici dietro le sbarre.

Dietro l’accordo, senza dubbio, anche il timore israeliano di vedere le città palestinesi accendersi di rabbia con l’aggravarsi delle condizioni di salute degli scioperanti, e in concomitanza con l’inizio del Ramadan. Difficilmente si può spiegare altrimenti la decisione di cedere al negoziato più inviso: quello con il leader più rispettato, considerato da Israele un “terrorista” e dai palestinesi come un punto di riferimento, tra le poche voci credibili del proprio panorama politico.

Ma oltre le considerazioni e le percentuali c’è la speranza.

Ci sono la determinazione e la fiducia di un popolo che è stato tradito troppe volte. C’è una popolazione stanca di Occupazione, ma stanca anche di fazionalismo e divisioni, che nel leader di Al-Fatah in carcere dal 2002 e condannato a 5 ergastoli continua a credere, nonostante gli scontri interni al suo stesso partito.

E che dalla fermezza di chi ha rifiutato il cibo per 40 giorni è tornata a trarre nuova linfa e ispirazione. E ad imparare dignità.