di Maria Tavernini
Sotto la guida del Bharata Janata Party, il partito del Premier in carica, si susseguono episodi di violenza da parte di gruppi che attaccano minoranze sulla base di dicerie, voci non verificate, pregiudizi e questioni etnico-religiose.
Non è il primo caso, in un’India nella quale sempre più emerge la matrice ultra-induista del governo con le sue modalità sempre più fasciste di imporsi sulla pluralità indiana
Il 18 maggio scorso, sette uomini sono stati uccisi da una folla inferocita a Jamshedpur, nello stato indiano di Jaharkhand.
I video del brutale linciaggio – un’immagine su tutte, un uomo insanguinato che implora pietà in ginocchio -, sono diventati virali su Whatsapp, dove da giorni giravano messaggi e voci non confermate che allertavano la popolazione sulla presunta sparizione di bambini nella zona.
Una folla di uomini armati di mazze e bastoni ha attaccato sette persone (in diversi episodi collegati) – presunti rapitori di bambini – molti dei quali musulmani. Dopo i funerali delle vittime, la tensione è esplosa tra la comunità musulmana e quella tribale cui appartengono gli autori del linciaggio, secondo la polizia locale, che ha arrestato 18 persone.
Non si tratta però di un caso isolato. Negli ultimi tre anni, da quando il Bharata Janata Party (BJP) il partito di Narendra Modi è al governo, le violenze e la repressione ai danni delle molte minoranze del paese (musulmani, sikh, Dalit, omosessuali, Adivasi, cristiani, rifugiati) si sono susseguiti a intervalli sempre più ravvicinati, spesso con esiti tragici.
In un’India sempre più intollerante e definita dal pensiero unico, l’ideologia dell’Hindutva, dell’“induità” più pura così come intesa dal BJP, sta prendendo piede nella sua forma più settaria e violenta.
Nel mirino dei fanatici induisti fomentati e sostenuti dal Rashtraiya Swayamsevak Sangh (RSS), il braccio paramilitare del BJP, in questi anni sono finiti non solo le minoranze, ma anche intellettuali, studenti, liberali e oppositori ideologici, prontamente etichettati come anti-nazionali e accusati di sedizione, e quindi pericolosi per l’integrità nazionale.
I bhakt – com’è chiamato l’esercito di supporters che su Twitter incensa le gesta del premier, credono in un’India che sia una e induista, e non mancano di applicarlo, laddove necessario, con la forza e con il sangue. Negli ultimi tempi, tra il silenzio delle istituzioni e l’inazione della polizia, la parola chiave di molte violenze è stata “mob”: la calca omicida.
Folle inferocite che sospendono la coscienza, la capacità di giudizio, il diritto. Si fanno orda che travolge, picchia, uccide. Portatori di una giustizia fai da te che diventa follia omicida.
Come a Saharanpur, nell’Uttar Pradesh, stato di recente è passato al BJP che ha nominato un monaco induista radicale come governatore. Lo scorso 5 maggio, una folla di Rajput (alta casta) con la testa fasciata in sciarpe arancioni – il colore del BJP – ha attaccato un basti, un accampamento dove vivevano le famiglie Dalit (bassa casta) appiccando un incendio al quale sono seguiti morti, feriti e violenti scontri.
Il mob, secondo reporter locali, pare questa volta sia stato scatenato dall’erezione di una statua di Bhimrao Ambedkar, leader Dalit, vicino a un tempio induista. Un affronto che i Rajput non hanno saputo sostenere.
O ancora, ad Alwar, in Rajastan, il primo aprile un piccolo produttore di latte, Pehlu Khan, è stato ucciso perché trasportava delle vacche, animale sacro all’induismo e la cui macellazione (e trasporto) sono vietati in molti stati indiani. Divieto che si è espanso a macchia d’olio con l’ascesa del BJP e che la settimana scorsa è diventato legge statale.
Accusato di trafficare le mucche che aveva appena acquistato al mercato, è stato picchiato a morte dai Gau-Raksha, un gruppo di estrema destra votato alla protezione della vacca sacra. I suoi membri, affiliati delle RSS, sono soliti attaccare i camion che trasportano bestiame e punire indiscriminatamente i proprietari delle mucche, che in molti casi sono musulmani o Dalit.
In un editoriale sul New York Times, Aatish Taseer delinea l’anatomia di questi linciaggi in cui la folla si fa giudice e boia. Nella folla stessa trovano la loro forza: quella di una maggioranza che si impone su una minoranza, dove la legge dello stato invece di proteggere le vittime, coadiuva gli assassini.
Ingrediente fondamentale dei linciaggi è il silenzio, scrive Taseer, scagliandosi contro Modi e il silenzio di una nazione che è complice, in quanto mera spettatrice. Ultimamente, i linciaggi più frequenti, hanno per oggetto musulmani accusati di possedere manzo.
Pehlu Khan non è però né il primo né l’ultimo di questi cortocircuiti collettivi. Episodi che fanno paura e costringono ad andare più a fondo e a interrogarsi sulle radici di questa rabbia che diventa omicida. Come quando il 27 marzo a Noida, periferia di Delhi, diversi studenti nigeriani sono stati massacrati di botte da una folla inferocita. L’accusa? Aver venduto della droga a un ragazzo indiano e averlo poi mangiato.
Una storia di cronaca incredibile, che aiuta a comprendere il livello di razzismo che dilaga in una società la cui ineguaglianza intrinseca viene fatta risalire al colonialismo. Un episodio questo di Noida, che si va ad aggiungere alla lunga serie di vessazioni e attacchi subiti dalla comunità africana nella capitale indiana, vittima di pregiudizi e ignoranza.
Bisara, Muzaffarnagar, Dadri, Ayodhya, erano luoghi pressoché anonimi dell’India rurale prima che la sete assassina di giustizia, frustrata dall’apatia delle forze dell’ordine, ne facesse le capitali del mob in salsa indiana.
Lo scrittore Pankaj Mishra, in un intervista al TIME, ricorda che Modi è lo stesso uomo al quale gli Stati Uniti avevano negato il visto per il suo coinvolgimento nelle violenze anti-musulmane in Gujarat quando era governatore dello stato .
“Modi ha promesso alle masse to make India great again, ma a tre anni di mandato la sua visione di una supremazia economica, geopolitica e culturale dell’India è lungi dall’essere realizzata “, continua Mishra, senza risparmiare colpi, “Musulmani e intellettuali liberali e secolari sono diventati il capro espiatorio della sua famiglia allargata di nazionalisti indù. Ma Modi è un maestro della seduzione, e gioca abilmente con paure ancestrali e insicurezze culturali”.