Intervista a Giulio Piscitelli sul suo lavoro “Haragga. In viaggio bruciando le frontiere”, che documenta le diverse rotte attraversate dai migranti, dall’Africa al Mediterraneo alla Balkan Route.
Di Giusi Affronti
“Harraga. In viaggio bruciando le frontiere” è un recente progetto edito da Contrasto, “archivio” di parole e immagini che è valso al fotografo Giulio Piscitelli (Napoli, 1981) la XIII edizione del Premio Amilcare Ponchielli.
Quello cui apparteniamo è un momento storico che ridefinisce le frontiere quotidianamente e barbaramente, trasformandole a seconda di ciò che sospinge verso nuove rotte chi viaggia guardando all’Europa in direzione ostinata e contraria. Dall’Africa, nel Mediterraneo, lungo la Balkan Route. Non rimane scelta, prima il deserto e poi il mare: attraversare le frontiere e saltare i muri eretti ai loro margini, schivare il controllo delle polizie e affidarsi a trafficanti capaci di spararti addosso per un cappellino da baseball.
La fotografia documentaria di Giulio Piscitelli racconta la Storia delle migrazioni, altrove rappresentata con piglio freddo da breaking news. Lui lo fa corpo a corpo, viaggiando dal porto di Zarzis verso la riva nord del Mediterraneo, insieme a centoventi persone a bordo di un peschereccio logoro.
“Harraga” è il titolo del tuo primo libro fotografico: cosa significa?
Harraga è una parola del dialetto del Maghreb. Si usa in Algeria, Marocco e Tunisia per definire il migrante che viaggia senza documenti, “bruciando le frontiere” e, insieme, azzerando il proprio passato. Nei paesi da cui si scappa – Eritrea, Somalia, Nigeria, Siria, Iraq – non si concedono visti di uscita, non si può battere una strada che non sia illegale come quella dei passeur, contrabbandieri che intascano più di mille euro per ogni uomo che, nel chiuso di una stiva o dentro il cassone di un tir, sogna una vita nuova.
Quando hai iniziato a seguire gli “harraga” e da quale esigenza nasce questo progetto?
“Harraga” non nasce a priori come progetto, lo è diventato nel tempo viaggio dopo viaggio. Nel 2010 un’agenzia italiana mi ha commissionato un fotoreportage a Rosarno, durante gli scontri tra braccianti autoctoni e lavoratori stagionali africani nella Piana di Gioia Tauro. Quello è stata la mia prima esperienza professionale dell’immigrazione; da lì è nata la curiosità di sviscerarla andando oltre l’Italia. Ho cominciato a informarmi, la ricerca documentaria di Gabriele Del Grande è stata di fondamentale importanza. Ho viaggiato da fotografo freelance, il più delle volte senza nessuna commissione e a mie spese; per me è stata una straordinaria scuola di fotografia e di foto-giornalismo.
Un infaticabile lavoro di reportage sul campo: quali sono le rotte che “Harraga” documenta?
Ho percorso le rotte che attraversano il deserto: quella che dall’Africa subsahariana occidentale si dirige verso Marocco e Tunisia fino alle coste italiane – documentando l’enclave spagnola di Ceuta e Melilla – e quella orientale che dal Corno d’Africa supera Khartoum in direzione Egitto e Libia e da lì poi verso Lampedusa. Ho seguito i viaggi di siriani, iracheni e afghani tramite le isole di Kos e di Lesbo, poi in marcia lungo i Balcani. Dall’altro lato delle frontiere, l’Italia e l’Europa sembrano l’America. Immigrazione significa persone in movimento, persone che si spostano da un luogo all’altro: From there to here è stato fino a poco tempo fa il titolo di questo progetto. Resto ancora legato a questa citazione.
Hai attraversato il Mediterraneo su un’imbarcazione logora di legno lunga dieci metri. Qual è stato il confine tra vicenda professionale e umana?
Ero in Tunisia per raccontare, come molti fotografi, l’esodo di centinaia di migliaia di profughi dalla Libia. Ho chiesto a uno scafista di poter essere presente durante uno degli imbarchi notturni e mi ha proposto, invece, di prendere il mare insieme a centoventi migranti su una barca carica al tal punto che la poppa era quasi a filo con l’acqua. Non era programmato ma ho accettato e pagato la mia quota. E’ stato un caso fortunato, un incontro può far la differenza. Come è accaduto durante il mio ultimo viaggio, in Iraq. Ero a Mosul per documentare la prima avanzata dell’esercito iracheno contro l’Isis e mi sono imbattuto nelle storie di persone che scappavano con le barche sul fiume Tigri. Quello del fotoreporter non è un lavoro d’ufficio: fotografare il viaggio di persone che guardano in faccia la morte pur di cambiare vita ha profondamento formato la mia. Le facce, gli sguardi, i corpi; e poi ancora le fughe, le rincorse, le battute d’arresto, gli interminabili momenti di pausa.
“BOSAI! BOSAI! BOSAI! Vittoria! Vittoria! Vittoria!” è il grido, alle prime luci dell’alba, di circa duecento persone a cavalcioni su una recinzione di confine a Melilla. L’Europa a portata di salto, come racconti a proposito di una delle fotografie.
Dal monte Gurugu nel Nord del Marocco si può vedere l’Europa. Melilla è un pezzo di terra strappato all’Africa durante il periodo coloniale. Per migliaia di giovani africani è un’ossessione: per afferrare lo European dream si deve scavalcare il muro che divide la piccola enclave spagnola dal Marocco e dal resto del continente. Una tripla recinzione, alta sei metri e lunga più di dieci chilometri. Chi sale su quella recinzione sa che se atterra sarà pestato e poi respinto dalla Guardia Civil, dritto nelle mani della polizia marocchina. In quest’anticamera d’Europa c’è chi attende per anni, all’interno del CETI. Oggi, sempre più spesso, il “Modello Melilla viene applicato anche altrove, in Bulgaria, Serbia, Macedonia, Ungheria e Grecia.
Nel libro, alle storie e alle fotografie si accompagna una straordinaria “collezione” di mappe: perché questa scelta editoriale?
Autore delle mappe è il cartografo francese Philippe Rekacewicz che da oltre vent’anni si occupa di migrazioni. Il suo lavoro aggiunge preziose informazioni al mio reportage fotografico. La scelta di intrecciare insieme due ricerche indipendenti è stata della photoeditor Giulia Tornari. Lei, inoltre, ha curato la mostra tratta da “Harraga”, che si è inaugurata lo scorso marzo alla Galleria Forma Meravigli di Milano.
“A Yazan, Al Qusayr, Siria, 20 giugno 2012, e a tutti quelli che scappano”: così recita la dedica del libro. Me la racconti?
Yazan era un bambino siriano. Quel giorno ho assistito per la prima volta a un conflitto a fuoco e Yazan è morto sotto i miei occhi, ucciso dalla pallottola di un cecchino. Un adulto che punta un fucile contro la testa di un bambino: uno dei momenti di maggiore atrocità che ho ritrovato fra i miei appunti quando stavo lavorando ai testi per la pubblicazione. Questa tragica storia racconta il dramma quotidiano di centinaia di migliaia di persone ed è da mondi senza regole come questi che gli “harraga” scappano. Quando si scappa da casa, si scappa per una ragione valida. Sempre.
Foto copertina: Profughi eritrei attraversano il deserto del Sahara, maggio 2014 (Giulio Piscitelli, Contrasto)