di Alice Bellini
Terminillo. Terminilletto bello. ‘A montagna de Roma, lo chiamano.
E tutti lo guardano un po’ con tenerezza. Non è nemmeno il più alto del Lazio. Eppure io da lassù ho visto una grandezza che pochi orizzonti sanno concedere. Nessuno “je dà ‘na lira”, come direbbe chiunque da queste parti, per la poca altezza, per le poche gesta eroiche che concede. Ma le cose semplici vanno sapute apprezzare e, alla fine del tempo, sono sempre le più dense e fondamentali.
Lassù, su quella vetta deserta che un venerdì di fine maggio ci ha concesso, l’importanza della prospettiva diventa nitida, quasi ovvia. Eppure, quando si scende a valle, forse nel nostro sentirci così piccoli, ce ne scordiamo quasi istantaneamente.
Lavorare carriere inventate, per guadagnare soldi inventati, per comprare oggetti inutili: è davvero questo che importa? Vale davvero le nostre malattie? È davvero così che vogliamo vivere?
Guardo le vette lontane, le distese di natura, il mare laggiù, questo mondo tutto, canto Lucio Dalla e mi chiedo se una vita inventata abbia più senso di questa realtà così naturale. Bastano due respiri, l’aria che sa di neve sciolta: il cuore rallenta il battito anche nell’affanno, perché la vita improvvisamente ritrova una dimensione più proporzionata. È un senso di giustezza che raramente si prova.
Terminillo. Terminilletto bello. Montagna de Roma. Insegnace te a vive da umani, che qui er delirio d’onnipotenza c’ha fatto scordà ‘a bellezza de sentisse piccoli davanti a ‘n orizzonte che nun finisce più.