Tra la visita di Papa Francesco al Cairo e le elezioni legislative in Algeria
Pierfrancesco Curzi
Gli sguardi stanchi e provati dalla fatica, dalla malattia e dal desiderio di essere altrove. Ecco cos’ha legato, di recente, Papa Bergoglio, durante la sua visita al Cairo, e il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika. In comune i due leader hanno anche l’età, 80 anni appena compiuti, e una grande responsabilità. Nel giro di dieci giorni tra la fine di aprile e l’inizio di maggio scorsi, sono stati a loro volta chiamati ad un impegno importante.
Il Pontefice, in particolare, volato per una “27 ore” mordi e fuggi nella tentacolare capitale egiziana; Bouteflika, al contrario, è rimasto in patria, non potrebbe essere altrimenti, viste le sue precarie condizioni di salute, assistendo all’ennesimo e annunciato successo del suo partito, il Fronte di Liberazione nazionale (Fln) alle elezioni Parlamentari.
Viaggio in Egitto.
Quello a fine aprile è stato, a livello internazionale, il n. 18 per Bergoglio. Obiettivi della missione? Molteplici, a partire dalla rivendicazione di uno spazio di autodeterminazione e di libertà di culto ai cristiani di quel Paese, possibile solo con uno sforzo di attenzione da parte del governo di Abd el-Fattah al-Sisi per proteggere la minoranza religiosa.
Tre attentati in quattro mesi hanno lasciato a terra più di 80 fedeli, riuniti in preghiera dentro le chiese del Cairo, l’11 dicembre 2016, di Tanta e Alessandria il 9 aprile scorso.
Le organizzazioni jihadiste vicine allo Stato Islamico hanno bussato, trovando l’apparato di sicurezza sguarnito: “Lo Stato non ci ha protetto” ammette fuori dai microfoni uno dei sacerdoti della chiesa copta di Mar Girgis, San Giorgio, a Tanta, dove un attentatore suicida ha fatto 28 morti la Domenica delle Palme.
Lo abbiamo incontrato, alla vigilia della visita del Papa, all’esterno della chiesa, oggi blindata da militari e agenti di sicurezza, sigillata per consentire ulteriori indagini. Sul sagrato i resti delle panche e dei tabernacoli inceneriti e un manifesto che celebra le vittime cristiane. L’area puntellata dalla polizia: “Ero in negozio quando, verso le 9, è scoppiato il finimondo. Una carneficina, non dimenticherò mai. Sono musulmano, ma i cristiani sono fratelli, mai nessun problema con loro”, racconta Mohamed, commerciante di Tanta.
I cristiani egiziani vantano un credito dal presidente al-Sisi. Il capo della chiesa di San Marco al Cairo, attaccata a dicembre, padre Bouls, ha ringraziato il capo del regime militare per la solerzia con cui ha sistemato i danni dopo l’esplosione che ha ucciso più di venti persone, tra cui diversi bambini. Proprio in quella chiesa Papa Francesco ha voluto incontrare il Papa copto, Tawadros II (Teodoro), un abbraccio che ha raccontato più di tante parole. Quelle parole distensive che il Pontefice ha rilasciato durante la Conferenza al centro al-Azhar a Nasr City, dirette al cuore dell’Islam.
Un discorso che ci si attendeva scomodo e che invece ha rispettato il cliché. Nessun riferimento diretto alla brutalità del regime di al-Sisi, ai diritti umani calpestati e al fastidio che la minoranza cristiana (10%, i cattolici sono lo 0,3, appena 240mila) rappresenta per il Paese dei Faraoni.
Tarallucci e vino, così è finita la missione papale in Egitto, ma forse pochi hanno notato lo sguardo di Bergoglio durante l’incontro ufficiale nel Palazzo Presidenziale. Francesco, atterrato mezz’ora prima all’aeroporto internazionale, è stato accolto da al-Sisi davanti allo sportello della Fiat Punto senza blindatura. Assieme, i due capi di Stato hanno ascoltato gli inni e il volto del religioso lasciava trasparire la volontà di essere altrove, piuttosto che a fianco di un dittatore.
Volto che ha riacquistato un po’ di tono la mattina successiva, al suo ingresso nello stadio dell’aeronautica per la Santa Messa officiata in latino (omelia a parte, in italiano) da Papa Francesco. Il contatto più diretto coi fedeli lo ha rinfrancato, ma certo resta il buco nero delle cifre. La stessa Santa Sede ha parlato di ‘bagno di folla’ , di ‘30mila persone sugli spalti’, quando, in realtà, al massimo i fedeli presenti erano 10mila. Bergoglio è ripartito lo stesso pomeriggio senza che gli egiziani quasi se ne accorgessero, segno che la sua visita è servita a tutto meno a che affrontare i veri temi caldi collegati al grande Paese nordafricano.
Compreso il caso Regeni, capace solo a scaldare i bookmakers: Bergoglio e al-Sisi ne hanno parlato, oppure no? Tutto il resto è noia.
Algeria al voto.
A proposito di Nord Africa e di Maghreb, a proposito di volti stanchi e tirati, che dire dell’espressione segnata dalla malattia di Abdelaziz Bouteflika. Malignamente, gli algerini e i ‘pieds-noir’ (gli espatriati, riprendendo il movimento degli anni post-coloniali), erano convinti che la sua figura fosse diventata leggenda e che lui, in realtà, fosse morto da tempo.
Una storia capitata a molti leader mondiali, vedi Fidel Castro, lungodegente e morto l’anno scorso. Recandosi al seggio per infilare la sua scheda nell’urna il 4 maggio scorso, di fatto il presidente Bouteflika ha smentito qualsiasi diceria. Certo, il suo grado di presenza alla guida del Paese resta incerto. Un uomo malato a capo di un partito monolite, abituato al trionfo ormai da quasi un quarto di secolo. La guerra civile di inizio anni ’90 è lontana, dopo il sangue versato la pace, ma a quale prezzo?
L’Algeria, da anni ormai, sembra scomparsa dai radar della geopolitica internazionale.
Mentre, nel 2011, tutti i suoi vicini si sollevavano regalando speranze di libertà e democrazia, ma raccogliendo sostanzialmente solo tempesta e un futuro peggiore del passato, Algeri restava impassibile. In fondo aveva già dato. La tragedia degli anni ’90 somiglia tremendamente a quanto accaduto, ad esempio, proprio in Egitto nell’estate del 2013.
Allora, elezioni politiche del dicembre 1990, il Fis (Fronte Islamico della Salvezza) si aggiudica il potere, ma un colpo di stato appena due settimane dopo, orchestrato proprio dal Fln, innesca un vortice di sangue e morte che resterà tra le pagine più tristi della storia. Un Paese, l’Algeria, che ancora si leccava le ferite della tracotanza post-coloniale francese, a cui i moti anticoloniali non erano mai andati giù. De Gaulle e la sconfitta, inattesa, la battaglia di Algeri (magistralmente dipinta da Gillo Pontecorvo nell’omonimo film), l’esodo dei francesi, pelle bianca e ‘pieds noirs’.
La reazione del Fln appare identica a quella andata in scena nel luglio del 2013 al Cairo, quando il leader dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi, legittimato da un voto popolare, è stato deposto dal colpo di stato guidato dal suo ministro della difesa, al-Sisi appunto. Con la differenza che in Egitto la fase reazionaria non ha prodotto una guerra civile, quanto un’aggressione ‘narcotizzata’ ai normali diritti personali.
L’Egitto è malvisto e deve lottare con la piaga del terrorismo jihadista, forte nel Sinai e pronto a sbarcare nel resto del territorio; l’Algeria passa inosservata e lo Stato Islamico, per ora, da quelle parti si ‘accontenta’ di reclutare combattenti.
In tutto ciò, gli algerini hanno rieletto i 462 membri del Parlamento. Tutto come copione: l’Fln, assieme agli alleati di coalizione, ha raccolto la maggioranza dei seggi, alle opposizioni il solito zuccherino del ‘ritenta, sarai più fortunato’. Un allarme per Bouteflika e per chi sta realmente tenendo le redini del potere in Algeria, tuttavia c’è: l’astensionismo. Nel 2012 aveva votato il 43% degli aventi diritto, stavolta appena il 38%. Un segnale da cogliere al volo in vista delle prossime politiche. Senza Bouteflika probabilmente.