Sul fronte per Charlie

L’intervista a William nasce nell’ambito dell’ebook “Nelle piaghe del Leone”, che sarà pubblicato a settembre da Delos Digital nella collana Passport.

Grazie all’Autrice per averci concesso questo stralcio del libro, disponibile da settembre.

di Selene Verri

Il Bataclan e la vecchia sede di Charlie Hebdo sono entrambi a una decina di minuti a piedi da questo bistrot parigino dove William mi ha dato appuntamento. Lui vive qui nell’undicesimo arrondissement, quando non è in Asia o a combattere in Rojava, la regione nel nord della Siria auto amministrata a maggioranza curda. Quando il settimanale satirico Charlie Hebdo è caduto vittima del sanguinoso attacco terroristico rivendicato da Daesh, il 7 gennaio 2015, «Ho sentito i colpi d’arma da fuoco dalla camera dove abitavo, e questo mi ha convinto una volta per tutte che bisognava andare là», mi racconta. “Là”, in Siria, con i curdi, a combattere contro gli estremisti islamici.

William è francese e nel momento in cui lo intervisto, il 6 maggio 2017, ha 47 anni. Non vuole che dica il suo cognome e il paese in cui ha lavorato, nell’Asia sudorientale, ma si lascia fotografare e intervistare volentieri.

L’ho conosciuto due anni prima, al ritorno dal fronte di Serê Kaniyê. Anche in quell’occasione mi aveva parlato dello choc di Charlie, del fatto che non sopportava di sapere che così tanti occidentali si lasciassero reclutare dai jihadisti. Oggi precisa: «Mi trovavo in Asia, e all’epoca non seguivo troppo l’attualità internazionale, ma quando ho visto che c’erano 1.200 francesi che si erano arruolati con Daesh, e una quantità di belgi, tedeschi e inglesi che avevano fatto altrettanto, questo mi ha davvero fatto incazzare. Io poi sono ufficiale di riserva perché ho fatto il servizio militare, quindi un po’ di background ce l’ho. Ho visto un reportage su Jordan Watson, un combattente americano, che credo sia arrivato là nel settembre 2014, e che diceva che lo YPG – le Unità di protezione del popolo, a guida curda – accoglieva i volontari internazionali, e da quel momento mi sono organizzato per partire. Poco prima che partissi, hanno attaccato Charlie Hebdo».
 

Le frontiere ideologiche e di trattamento

William non è cambiato in questi due anni: alto, spigoloso, la mascella quadrata e il sorriso leggermente asimmetrico, un po’ spigoloso anche quello. Gli manca solo l’uniforme che indossava quando l’ho incontrato fra due pickup in mezzo al deserto di campi, bruciati dai combattenti per non rischiare di saltare in aria su qualche ordigno. Quando l’ho ricontattato via email ne ho approfittato per chiedergli che fine avesse fatto Çiçek, la comandante delle YPJ – l’ala femminile dello YPG – che intervistai all’epoca: era un personaggio piuttosto in evidenza, il suo nome ricorre su internet fino a pochi mesi dopo il nostro incontro, poi sparisce. Temevo il peggio, ma William mi ha rassicurata: Çiçek ha disertato l’anno scorso. «D’altra parte – mi ha spiegato nella mail – diversi quadri hanno lasciato lo YPG e il Rojava l’anno scorso, in particolare heval (il compagno) Bilal Effrin, che era il generale che comandava tutte le nostre operazioni ed era il capo di Çiçek, che invece era la comandante del fronte. E poi Ferman, il comandante della mia tabur, della mia unità di dushka, anche lui ha disertato nell’inverno 2016. È scappato con Amara, una franco-turca di origini curde, che era la responsabile YPJ della logistica di Siluk, sul fronte nord di Raqqa. Amara è stata arrestata lo scorso settembre in Turchia e si trova attualmente in prigione, dove è stata condannata a 5 anni per la sua partecipazione nelle attività dello YPG. Credo che per alcuni come Çiçek e Bilal la motivazione fosse politica, in rottura con il comando superiore dello YPG, e per altri era più perché avevano l’impressione di essersi fatti usare e poi essere stati messi in un angolo dal comando».

Tutte queste cose, dunque, William me le ha raccontate per iscritto. Di persona, dopo i saluti, e prima ancora di accendere il registratore, mi faccio dare qualche dettaglio sulle diserzioni. I motivi sono diversi.

Quando parlava di “motivazioni politiche”, si riferiva al fatto che ci fosse uno scontro fra “idealisti” e “pragmatici”, e Çiçek – e non avrei potuto immaginarla diversamente – si era trovata nello schieramento dei pragmatici. C’è poi – mi spiega – la questione dei kadro e degli herêmi: i primi sono gli esterni, quelli che vengono dall’HPG, il braccio armato del PKK, mentre i secondi sono i locali, i siriani. Stando alla sua testimonianza, i kadro sono stati formati a una vita ascetica, estremamente rigida. Molti di loro sono combattenti o comandanti del PKK, quindi in genere originari della Turchia, che passano la loro vita fra le montagne, lontano dalle loro famiglie e dai loro amici, che non possono rischiare di tornare a vedere se non a rischio della propria libertà quando non della propria vita. È una scelta di vita, ed è una scelta drastica, un peso che però fintanto che viene condiviso con altri combattenti nella stessa situazione si percepisce di meno. Gli herêmi invece hanno periodi di licenza, vedono regolarmente i loro familiari, e, nonostante la durezza della vita militare, sono relativamente dei privilegiati rispetto ai kadro, alcuni dei quali, alla lunga, sentono il peso di questa differenza di trattamento, e decidono quindi di appendere il kalashnikov al chiodo.

 

L’attraversamento delle frontiere

William ordina un caffè. La giornata fuori è grigia, in questa primavera che assomiglia ancora troppo a un autunno. L’appuntamento era alle 14, lui è arrivato puntualissimo, io ero già al tavolino, ho pranzato qui, dopo essere arrivata la mattina da Bruxelles. Un’italiana passata dal Belgio alla Francia, tutte frontiere che ormai, grazie a un trattato firmato a Roma 60 anni fa e grazie a Schengen, non sono più tali. La parte più complicata è stato il trasferimento interno a Parigi, ma il racconto di quest’avventura l’ho riservata a un post su Facebook.

Ben altro viaggio invece attendeva William nel 2015, quando ha preso la decisione di arruolarsi nelle milizie a maggioranza curda.

Innanzi tutto ha preso contatto via internet, in particolare via Facebook: «C’erano diverse tappe – racconta -, dovevi fornire la tua identità, poi passavi a un altro contatto, poi ti davano una data, e alla fine arrivavi a Sulaymaniyya, in Iraq, dove qualcuno si occupava di te». Il “qualcuno” per lui è stato «un tizio che all’aeroporto mi aspettava con un iPhone e la mia foto, tutto qui. Non parlava inglese, non parlava francese, ma non aveva la barba», precisa, come per dire: non era certo un fondamentalista islamico, quindi ero sicuro di non essere stato intercettato da Daesh. A questo punto l’hanno fatto salire su un’auto, «hanno messo della musica, vabbè, non era poi così male», e l’hanno portato in una safe house, dove ha dovuto aspettare 4-5 giorni prima di essere trasferito sulle montagne. «All’epoca – dice – si passava per le montagne, si restava in un campo dell’HPG diversi giorni se non diverse settimane».

Gli chiedo se per “montagne” intenda quelle di Qandil, dove il PKK ha le sue basi. «No, dalle parti di Dohuq: Qandil è verso l’Iran, qui siamo sulla frontiera turca, anche se è sempre in Iraq. Qui siamo rimasti 13 giorni, ad aspettare che si aprisse un passaggio… insomma, che i tizi alla frontiera fossero abbastanza “oliati” da lasciarci passare, e abbiamo attraversato il Tigri su un piccolo gommone di notte. Siamo stati accolti sull’altro lato da soldati dello YPG che ci hanno portati prima a Qaracho e poi all’accademia militare di Shêid Qaraman».

Quanto al background check, nulla di particolarmente complicato: «All’epoca si faceva un breve colloquio in chat con una tizia curda che stava in Germania. C’è anche un questionario, del tipo: sei mai stato in carcere?, ti droghi?, hai mai ucciso qualcuno? Insomma, non è molto serio. Ti chiedono solo di mandare una o due foto ma in realtà può andarci chiunque. Del resto è successo che sia arrivata gente non troppo normale».

All’accademia militare all’epoca – mi dice – si rimaneva una dozzina di giorni, adesso un mese, ed è qui che nello YPG imparano a conoscere i soggetti, «per cui a questo punto capiscono se sei uno psicopatico o se sei uno socievole.

E poi ti orientano un po’: c’era gente che non aveva nessuna esperienza militare, e loro li orientavano verso mansioni meno pericolose. Resta il fatto che la selezione è praticamente inesistente. Se va tutto bene, se non sei uno che fa grossi casini, poi ti mandano da un’altra parte, e a quel punto diventi il problema di qualcun altro».

Le cose, mi spiega William, sono cambiate negli ultimi due anni, in diversi modi: «All’epoca l’accademia era un’accademia mista, c’erano anche dei curdi che si addestravano lì, adesso è solo per gli stranieri. L’addestramento è un po’ più serio: quando sono arrivato io erano 12 giorni e su 12 giorni si faceva quel che si può ricordare in 3 giorni. C’era un’iniziazione alle armi leggere sovietiche, poi qualche trasferta sulle colline, ed era tutto».

 

Le frontiere linguistiche

E comunicare non è facile, in un ambiente composto principalmente di curdi, ma anche di arabi, armeni, assiri, senza contare gli altri stranieri… Poche storie: «Bisogna imparare il curdo». Il kurmanci, per la precisione. Perché il curdo non è una lingua sola, è fatto di diversi dialetti, che sono più che altro sottolingue, e che spesso hanno fra di loro in comune meno di quanto abbiano in comune italiano e francese. Per esempio, in kurmanci esistono maschile e femminile, in sorani no. Però su questo punto William è impreciso: lui pensa – come ho pensato anch’io per molti anni – che il kurmanci si scriva in lettere latine e il sorani in lettere arabe, ed è per questo che il kurmanci sarebbe la lingua di predilezione nello YPG, perché sarebbe più facile da insegnare agli stranieri. In realtà tutti i dialetti curdi si possono scrivere sia in lettere latine sia in lettere arabe: tutto dipende dal luogo. Per essere più precisi: il kurmanci è il dialetto più parlato, ed è maggioritario in Turchia e in Siria. In Turchia però, dove l’alfabeto che si impara a scuola è l’alfabeto latino, il kurmanci si scrive con l’alfabeto latino, mentre in Siria, dove l’alfabeto insegnato a scuola è quello arabo, il kurmanci si scrive in caratteri arabi. Tutto qui.

Ci sono però anche altre sottigliezze che personalmente trovo affascinanti.

Dopo aver intervistato William ho contattato Mehmet, un amico che insegna curdo in un’associazione a Lione, dove vivo, per chiedergli una consulenza linguistica. Un paio di parole non gli tornavano, in particolare tabur (l’unità) e un qualcosa che a me suonava come karege (quartier generale). Mehmet mi ha detto che “unità” si dice yekîne (come in Yekîneyên Parastina Gel, YPG, Unità di protezione del popolo)  e “quartier generale” biryargeh o baregeh. Ho provato a riascoltare l’intervista, che per vicende che non ricostruirò qui è registrata con un suono di pessima qualità, ma non c’è niente da fare: dice proprio tabur e karege. Allora ho fatto una ricerca, e ho scoperto che effettivamente tabur esiste, ma… in turco. E, sempre in turco, “quartier generale” si dice karargah, che peraltro se non ho capito male – gli specialisti di lingue orientali mi correggeranno – deriva dalla fusione di un termine persiano e un termine arabo.

Ora, perché i curdi dovrebbero parlare turco? Al di là del fatto che in queste regioni le lingue spesso si confondono e si nutrono a vicenda, c’è la realtà di una guerriglia curda originaria della Turchia, i cui adepti hanno subito il processo di turchizzazione imposto per decenni dallo Stato. Di conseguenza da un lato in molti non hanno mai nemmeno avuto la possibilità di apprendere il curdo, dall’altro lato il loro curdo si è imbastardito, accogliendo diversi termini derivanti dal turco. Il linguaggio del PKK, o anche solo di chi ha studiato sui testi di Öcalan, come molti politici del Rojava, usa quindi questi termini anziché l’equivalente curdo, e da questo dettaglio se ne riconosce subito il colore politico.

Ma torniamo a William, che spiega che è fondamentale imparare il kurmanci perché, oltre a essere la lingua ufficiale del PKK e dello YPG, fra i combattenti «ce ne sono molto pochi che parlano inglese, ancora meno che parlano francese, e quando parlano inglese comunque lo parlano male, quindi è assolutamente fondamentale imparare la lingua, altrimenti non se ne esce. È per questo che di solito gli stranieri stavano insieme, perché da soli erano in difficoltà».

E stando insieme, William ha fatto amicizia con un commilitone romeno. Dopo l’accademia sono stati trasferiti entrambi sul fronte di Serê Kaniyê al momento della grande offensiva di Daesh. Lui si era fatto male all’accademia, per cui ha deciso di non chiedere di essere integrato subito in un’unità di combattimento. Il suo amico è voluto restare con lui, e sono rimasti entrambi un mese in questo quartier generale, dove si occupavano di attività come la sicurezza dei trasporti o il trasporto delle munizioni, il che ha permesso loro di imparare un po’ la lingua. «I romeni poi sono molto portati per le lingue, quindi il mio amico ha imparato molto in fretta. Abbiamo avuto un mese in più per imparare a dire cose come ‘a destra, a sinistra, in piedi, seduto, stanno sparando’… insomma, le espressioni di base per poter lavorare».

In tutte le unità, mi spiega William, ci sono herêmi e kadro. Sia fra gli herêmi sia fra i kadro c’è gente di tutte le origini: fra i kadro si possono trovare curdi originari d’Iran, d’Iraq e soprattutto di Turchia, mentre gli herêmi sono soprattutto curdi e arabi siriani.

Ci sono poi altre comunità: «Ad esempio, il capo del gruppo di sniper che era con noi era uno yazida, così come alcuni che facevano parte della nostra unità a Serê Kaniyê; il comandante Ferman era curdo ma di origine armena e proveniente dalla Turchia; nella nostra unità c’era anche un turco, un giovane che aveva disertato ed era venuto con noi perché diceva che nell’esercito turco gli facevano fare cose su cui lui non era d’accordo. Per la maggior parte gli arabi erano siriani, mentre c’erano curdi che venivano dal Libano, dall’Egitto, da destra e manca… In queste unità trovi gente che ha un passato da raccontare, che ha lavorato un po’ in tutto il Medio Oriente».

Mi fa ancora una volta l’esempio di Ferman, il suo comandante: «È nato in questa parte della Turchia che è più o meno armena, ha vissuto nel Kurdistan turco, poi se n’è andato, ha vissuto in Libano, dove peraltro è finito nello Hezbollah… ecco, non c’entra niente, è cristiano, e si è ritrovato nello Hezbollah. Poi si è ritrovato in Siria, poi ancora nelle montagne per quattro anni, prima di scendere di nuovo. Ecco il suo percorso, questa è gente che fa dei chilometri. Ci sono anche curdi iraniani, che vengono da lontano. E parlano tutti kurmanci, bisogna imparare il kurmanci».

Conclude il capitolo sulle lingue con un aneddoto: «Al quartier generale spesso bisognava tradurre dei documenti, come ad esempio i lasciapassare, in arabo, in curdo e a volte in turco, perché eravamo alla frontiera e ci sono persone che parlano solo il turco. L’aspetto divertente è che ai checkpoint ci potevano essere degli arabi, e allora noi tiravamo fuori il documento in kurmanci, sapendo che non sanno leggerlo. Loro guardavano, dicevano “ok, passate” e via così. A volte abbiamo avuto qualche problemino con dei documenti scritti in turco, per esempio. Perché uno degli scribi del generale era di nazionalità turca, e sapeva scrivere in kurmanci e in turco, ma non in arabo. E diverse volte abbiamo dovuto discutere con dei poliziotti per spiegare che cosa voleva dire cosa».

«Già – termina William -, è complicato laggiù».

 

Le frontiere comunitarie

Curdi, arabi, armeni, yazidi, e poi stranieri di ogni dove. Possibile che non ci siano tensioni fra le diverse comunità? Secondo William «È raro. Sono luoghi dove ad esempio curdi e arabi già vivevano insieme, Serê Kaniyê, Qamishlo eccetera sono luoghi abbastanza “misti”. Detto questo, c’è comunque una certa diffidenza: quando i curdi sono con gli amici arabi, va tutto benissimo, ma appena si voltano, dicono: “È un arabo, non bisogna fidarsi”. E se c’è un problema: “Be’, è normale, è un arabo”. Quindi nelle unità, quando le persone si conoscono fra loro, è raro che ci si scontri per ragioni di etnia o di religione, ma se osservi le dinamiche di gruppo, vedi che all’interno della tabur, dell’unità, gli arabi stanno con gli arabi e i curdi con i curdi. Sì, si mescolano un po’ fra di loro, ma quando scelgono la stanza dove dormire non è un caso se i quattro o cinque arabi dormono insieme e i curdi dormono fra di loro. Non c’è cattiveria, poi si divertono insieme, combattono insieme, ma insomma…».

Il pensiero va quindi a Raqqa, la “capitale” del sedicente Stato Islamico in Siria.

Città araba, che nel momento in cui stiamo chiacchierando aspetta l’intervento delle SDF, le Forze di Liberazione Siriane, a guida curda. In molti si chiedono se sia saggio che siano dei curdi a liberare una città araba, se la “liberazione” non sia vista più come un’occupazione dai locali.

«In realtà le cose sono molto cambiate – mi spiega William -. I fatti che descrivo risalgono al 2015. Adesso lo YPG si è trasformato molto, ci sono sempre più arabi che sono stati integrati nelle loro forze, ci sono più quadri arabi che sono stati formati, e anche curdi siriani. Per cui, se osservi le truppe che stanno intorno a Raqqa, vedrai che ci sono molti più arabi che alla mia epoca, quando siamo stati ad esempio a Tal Abyad. Ci sono ancora molti curdi, ma molte unità adesso sono composte unicamente da arabi. È una composizione etnica completamente diversa rispetto anche solo a due anni fa. E se ascolti le interviste, ci sono ancora dei curdi, ma spesso parlano in arabo».

E poi, stando a quel che mi dice questo francese in attesa di partire per partecipare alla madre di tutte le battaglie, a fine maggio, i curdi avrebbero tutta l’intenzione di lasciare la città agli abitanti del luogo: «Penso che succederà come a Manbij. Ogni volta che una città viene conquistata, si propone alla popolazione del posto di formare un consiglio militare e un consiglio civile composti da rappresentanti locali. Sono quindi loro a formare le loro unità militari, a organizzare la politica, certo sul modello del Rojava, cioè si cerca di fare in modo che ci sia una rappresentanza equa delle comunità e fra uomini e donne, e tutto il resto. Se ha funzionato bene a Manbij e Tal Abyad, che erano anch’esse due città arabe…Quando i curdi arrivano portano con sé questa specie di kit di governance militare e civile, dicendo: abbiamo fatto così negli altri posti, vedete se vi piace oppure no. Poi gli YPG partono, spesso resta qualche unità, ma il testimone passa rapidamente nelle mani delle milizie locali».

Mi decido a questo punto ad affrontare una questione delicata: lo YPG e il PYD, il partito al potere in Rojava, sono stati accusati dagli oppositori, ma anche da Amnesty International, di essersi macchiati di crimini di guerra e di casi di pulizia etnica.

Casi che che sono stati successivamente smentiti non solo dalla dirigenza dello YPG e del PYD, ma anche da un rapporto Onu in cui la Commissione Indipendente Internazionale d’Inchiesta sulla Siria ha dichiarato di «non aver trovato prove che giustifichino dichiarazioni secondo le quali le forze YPG o SDF avrebbero preso di mira le comunità arabe sulla base dell’etnia, né che le autorità cantonali dello YPG avrebbero sistematicamente cercato di modificare la composizione democratica dei territori sotto il loro controllo commettendo violazioni dirette contro un gruppo etnico particolare». Non sono state trovate prove, ma il dubbio rimane. Chiedo quindi a William il suo punto di vista. Lui mi racconta che a un certo momento, «sull’ampio fronte che andava da Hasaka fino a Kobane c’erano un mucchio di piccoli villaggi che erano di fatto delle vere buffer zone, e dove Daesh lanciava costanti incursioni, per cui non potevamo permettere ai civili che abitavano là di restare, innanzi tutto perché era troppo facile per Daesh confondersi nella popolazione, e ovunque abbiamo lasciato dei villaggi siamo stati attaccati, mentre quando chiedevamo agli abitanti di andarsene perché non potevamo garantire la sicurezza sul posto, gli attacchi cessavano. E poi il fatto è che la gente veniva presa nel fuoco incrociato, e non era possibile avere dei civili che fossero costretti a nascondere in casa dei miliziani di Daesh. Quindi in genere, per tutto quel che si trovava su questa buffer zone, procedevamo a evacuare tutti e abbattevamo tutte le case, ma non c’entrano niente gli arabi, su questo lato ci sono villaggi curdi».

Le accuse, mi spiega, sarebbero nate dal fatto che alcuni giornalisti venuti al fronte hanno visto che tutti i villaggi erano stati rasi al suolo e che i residenti erano stati fatti sfollare verso i campi profughi vicini. Peraltro, aggiunge, per la maggior parte i locali se n’erano già andati per paura di Daesh, quindi il lavoro dello YPG era convincere le famiglie rimaste nei villaggi a fare la stessa cosa, aiutarle a mettere le loro cose nei camion e trasportarle nei campi. «Non sono contenti, certo, ma capiscono… insomma, non c’è astio, è la guerra, e in ogni caso se poi la casa si trova sotto le bombe, meglio non essere dentro…».

 

Le frontiere fra le civiltà

La vita, si sa, è dura al fronte. Quando poi il fronte non è nemmeno il “tuo”, quando ti trovi a combattere da straniero in terra straniera, non c’è solo la barriera della lingua. Se poi si aggiungono altre difficoltà, tanto di cappello per il coraggio.

Tanto di cappello a William, quindi. Che si è trovato a combattere fra milizie dotate di scarsi effettivi, ancora meno armi e supporto esterno minimo. Una situazione in cui la sua esperienza precedente non è stata presa un granché in considerazione: «In realtà se ne fregano, perché sono abituati a fare queste cose da anni, in ogni caso pensano di saperle fare, quindi non c’è uno scambio di esperienze militari, tutto avviene a senso unico. Poi io sono rimasto molto tempo nelle unità, e allora una volta che ti conoscono, e che tu gli fai vedere che stanno rifacendo ogni volta la stessa cazzata… be’, non ho la scienza infusa neanch’io, ma su certe cose, insomma… Altrimenti, no, è piuttosto a senso unico».

Anche perché combattono in modo completamente diverso che in un esercito regolare: «Siamo molto meno numerosi, non abbiamo affatto lo stesso tipo di supporto, quindi il modo in cui combatte lo YPG negli eserciti occidentali non si vedrà mai. Insomma, prendere dei villaggi in 15 è inimmaginabile».

Gli chiedo come riescano a farlo: «Be’, ci riescono perché hanno molte perdite. Rischiano. A volte la va, a volte la spacca. Prendiamo l’esempio di Manbij: la battaglia di Manbij è durata circa due mesi e mezzo. Nell’unità di fanteria che era con noi sono partiti in 24 e sono tornati in 12. Hanno perso la metà dei loro uomini in due mesi e mezzo. Ed è sempre così. Della maggior parte delle unità storiche dello UPG, delle grandi tabur molto famose, restano uno o due sopravvissuti su 70… anzi su più di 70, perché quello era il numero all’inizio, poi ci sono state delle sostituzioni. Ci sono state decine di morti. Io sono stato 15 giorni proprio a Manbij, mi sono trovato in un’unità di fanteria, eravamo in prima linea, avanzavamo senza sosta… Ogni giorno siamo stati fortunati, siamo stati davvero fortunati».

William non si vergogna di dire che ha avuto paura, perché «Loro hanno la cultura dello şehîd, dei martiri, ma io non ho nessuna voglia di farmi sparare addosso, di andare in paradiso, io se muoio finisce lì. Loro sono così… Insomma, i buoni comandanti fanno attenzione, certo.

Ciò non toglie che sotto sotto pensino comunque che se muoiono saranno onorati. Quindi evidentemente non c’è lo stesso atteggiamento sul terreno. Come quando chiamano le loro unità di sabotaggio, gli artificieri che vanno a sminare, lo fanno con niente, con delle baionette, si lasciano saltare in aria…».

Ma dall’altra parte, a quanto pare, è peggio. Una cosa che mi aveva colpita quando avevo avuto l’occasione di parlare con lui in Siria era la tattica usata da Daesh per colpirli: mandavano all’assalto carne da cannone, decine, centinaia di ragazzotti senza esperienza su cui i combattenti dello YPG erano costretti a sparare all’impazzata, ammazzandone a grappoli. Gli chiedo se ricordo bene quello che mi aveva detto allora: «Sì – mi conferma -, Daesh aveva parecchi uomini in riserva, perché ovunque passassero reclutavano e costringevano le persone ad andare con loro, quindi tutti coloro che non erano ben addestrati, be’, se necessario li mandavano all’assalto, su terreni dove, anche se la notte si può riuscire a passare, non ci sono alberi. Quindi questi si facevano massacrare per bene. In ogni caso la tecnica di Daesh è il logoramento, che sia attraverso le auto suicide, i commando suicidi, o le ondate di uomini che si lanciano contro di te, dovunque ci sia un fronte cercheranno di sfondarlo, e poi sono abbastanza furbi, perché seguono i movimenti, vedono bene quando in un punto c’è un po’ meno gente, o se un soldato è stato mandato altrove, sanno usare molto bene le debolezze del nemico. E a volte funziona, perché – ripeto – noi abbiamo unità piccole, in una postazione possono esserci fino a 30 combattenti, ma spesso sono 10-15, per cui quando hai 50 uomini che arrivano con l’appoggio delle dushka e con armi pesanti, ci sono posizioni che finiscono per cadere. Semplicemente hanno più perdite di noi, sacrificano più facilmente i loro soldati, ma ripeto, sono soldati inesperti: quelli esperti, come i ceceni, fanno più attenzione e possono durare parecchio».

 

Le frontiere di genere

Un’altra frontiera simbolica da abbattere, forse la più importante di tutte, non solo qui in Medio Oriente, è quella fra uomo e donna. Tutti abbiamo visto le eroiche combattenti curde, a livello mediatico per lo YPG è stato un colpaccio, tanto che poi hanno seguito l’esempio anche i peshmerga iracheni, benché con meno scalpore. Ma in questa regione, nel Rojava, una regione auto amministrata che sta cercando di non ripetere gli errori commessi dal regime, che sta cercando di trovare una sua identità senza sopprimere le identità minoritarie, la lotta per l’uguaglianza tra uomo e donna va molto più in profondità: nelle istituzioni la parità è una realtà sancita per legge (il Contratto Sociale del Rojava stabilisce che dev’essere garantita la presenza del 40 % «di ogni sesso», e a ogni livello i leader sono un uomo e una donna) e in ogni luogo dove si fa istruzione, dall’asilo alle accademie per adulti che proliferano ovunque, si insegna che l’oppressione dell’uomo sulla donna è stato il primo tipo di oppressione, che ha portato poi all’oppressione capitalistica, sulla linea delle teorie espresse dal leader del PKK Abdullah Öcalan.

Ma è tutto oro quel che luccica? Nelle milizie dello YPJ, l’ala femminile dello YPG, le donne hanno la stessa importanza degli uomini? E ci sono discriminazioni o resistenze?

Secondo William, che ha combattuto con loro, che ha contribuito alla conquista di Tal Abyad sotto il comando della coraggiosa Çiçek, «Le YPJ fanno esattamente le stesse cose che facciamo noi, sono armate nello stesso modo, sono spesso organizzate un po’ meglio, più disciplinate. Non è affatto come fra i peshmerga, in Iraq, dove le unità femminili non combattono molto. Nello YPJ combattono nello stesso modo, non c’è assolutamente nessuna differenza. Poi, in seno allo YPG, spesso gli uomini preferiscono non dover avere troppo a che fare con le YPJ perché quando si è con loro c’è tutta una serie di regole che sono imposte: non si può stare a maniche corte, non si può stare in t-shirt, non ci si può fare la barba, non si può nemmeno andare in bagno. Una ragazza non deve vederti andare in bagno! Insomma, tutta una serie di cose che rendono la vita davvero impossibile, per cui ci sono molti curdi che preferiscono non vederle, non stare con loro, perché almeno evitano questi problemi, possono stare in maglietta, camminare a piedi nudi e così via. Ma a parte questo, non ho mai sentito nessuno lamentarsi o parlare delle YPJ in modo sprezzante. Sono molto coraggiose e si battono come gli uomini».

William ha avuto anche l’occasione di condividere la vita di tutti i giorni con i civili, con delle famiglie. Conferma la mia impressione: molte le donne con responsabilità politiche, molto coinvolte, non si lasciano pestare i piedi da nessuno e non si lasciano relegare a ruoli predeterminati. Anche se – precisa – esistono tradizioni molto forti, come quella della padrona di casa, e poi soprattutto nell’istruzione e nell’educazione. «Ciò non toglie che siano molto più coinvolte nella vita politica e nella vita civile ed economica che, direi, nel Kurdistan iracheno», osserva.

E le regole, nella vita civile, sono comunque più rilassate che nelle unità: «Mangi insieme alle ragazze, stai a piedi nudi, insomma c’è tutta una serie di cose che non hanno nessuna importanza, mentre per le donne dello YPJ è assolutamente necessario che non ci sia nessun dubbio sulla loro moralità, perché se poi, a casa, le famiglie si fanno dei dubbi in merito, non lasceranno le loro figlie andare in un’unità militare che lavora con gli uomini, non sia mai che fornichino… Mentre se ci sono regole molto severe e tutti sanno che sono molto severe, non ci sono dubbi, e allora non ci sono problemi. È per questo che non troverai mai una ragazza da sola, sono sempre almeno in due. E in ogni caso nello YPG e nello YPJ c’è l’imposizione del celibato».

 

Un Kurdistan diviso

Un’imposizione, quella del celibato, che viene dalle regole mutuate dal PKK. Ma allora, che differenze ci sono fra YPG e PKK, che rapporti ci sono? Sono lo stesso gruppo con nomi diversi, come sostiene il governo turco, o sono semplicemente gruppi affiliati, ma separati? William li vede come due cose separate, anche se, conferma, «Ci sono molti – soprattutto quadri, e soprattutto all’inizio – che venivano dalla guerriglia, semplicemente perché i siriani non sapevano come si organizzi una milizia. Quindi lo YPG è stato messo in piedi da quadri dell’HPG, la guerriglia curda. Ma poi non è affatto la stessa motivazione politica: lo YPG è siriano, serve a risolvere i problemi che ci sono in Siria, con curdi siriani, con arabi, riguarda questioni siriane. Il PKK e l’HPG hanno più a che fare con il nazionalismo curdo, è più diretto contro la Turchia. Sono altri obiettivi, altre cose. Poi naturalmente hanno in comune Öcalan, il leader dei curdi, ma più perché è la loro figura emblematica, è un eroe per loro, ma poi sul posto non è il PKK che comanda, è il PYD, poi ci sono altri partiti, ci sono dei partiti d’opposizione, composti da arabi e da altre comunità…

Insomma, i problemi non sono affatto gli stessi che in Turchia. Anche se ci sono alcuni combattenti che hanno lavorato nei due campi, è come un poliziotto che nel week-end frequenti un’associazione, fa il poliziotto ma poi nel week-end nella sua associazione dipinge quadri o fa altro. Quindi sì, ci sono alcuni che vengono dalla guerriglia, che sono là e organizzano, e la maggior parte dei generali vengono da là – tranne i generali arabi, naturalmente -, ma l’obiettivo non è d’importare il PKK in Siria. È un altro problema».

Ho più di una perplessità, e trovo il ragionamento traballante in più punti, oltre che pieno di imprecisioni, ma lascio correre: alle quattro William ha un appuntamento, non ho tempo per entrare nei dettagli, e comunque non è certo mio compito cercare di convincerlo che la separazione fra YPG e PKK sia più una trovata mediatica per cercare di evitare l’etichetta di “terroristi” alle milizie in Siria, etichetta che lo Stato turco insiste al contrario nel cercare di appioppargli, allo scopo di tagliare il supporto occidentale. Mi concentro allora sulle differenze, non solo fra curdi di Stati diversi, ma soprattutto di convinzioni politiche diverse: contrariamente a quel che si pensa, i curdi non hanno affatto tutti la stessa visione sulle soluzioni necessarie per il loro popolo, in particolare per quanto riguarda le frontiere che li dividono. Ad esempio i sostenitori di Massud Barzani, il leader del Kurdistan iracheno, conservano l’antico sogno di un grande Kurdistan indipendente, tant’è che la regione autonoma ha annunciato un referendum per l’indipendenza; al contrario, il Rojava e il PKK hanno come obiettivo la messa in pratica di un principio chiamato “confederalismo democratico”  ispirato alle teorie di ecologia sociale e municipalismo libertario dell’anarchico statunitense Murray Bookchin, che prevede comunque il mantenimento delle frontiere esistenti. Insomma, il PKK, contrariamente a quel che molti – anche giornalisti – pensano, non è affatto un gruppo separatista. Lo era all’inizio, ma sono quasi 20 anni che i suoi obiettivi dichiarati sono altri. Esistono invece altri gruppetti separatisti, alcuni del tutto pacifici, in Turchia, come il PAK, Partito per la libertà del Kurdistan. Tanto per complicare ulteriormente le cose.

Sulle divisioni fra curdi William ha l’aria del tutto disincantata: «Mah, in ogni caso i curdi non vanno d’accordo nemmeno fra loro, quindi… Io non ho sentito nessuno dire “Facciamo un grande Kurdistan che sia una nazione”, no.

Quello che volevano era di potersi muovere liberamente fra la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria, ma ciascuno a partire dalla sua piccola federazione, dalla sua piccola regione autonoma. È l’idea che sembra più logica, perché non vanno d’accordo, anche in Iraq, fra Barzani e Talabani, o fra yazidi e curdi di altre religioni… Ma credo che ne siano ben coscienti. E allora, che ciascuno abbia la sua piccola regione locale da autogestire, mi sembra la soluzione più di buon senso per loro».

E poi, a livello locale, ci sono ovviamente anche gli oppositori al “modello Rojava”: «Naturalmente. Le popolazioni locali sono abituate a vivere in un certo posto, sono un po’ delle tribù, soprattutto per le popolazioni locali che non facevano parte del Kurdistan tutto questo è molto nuovo. Ma credo che, anche se c’è gente che s’incazza e che non è contenta perché prima facevano affari con la Turchia e adesso non ne fanno più, e quindi la situazione è un po’ difficile per loro, in generale stanno comunque meglio, si sentono più liberi. E poi hanno comunque una vita migliore di quando stavano sotto Daesh, o anche prima con il regime siriano, quando alla fin fine erano lasciati nella loro povertà e nella loro miseria. A noi nessuno ha mai tirato pietre, siamo sempre stati ben accolti, e più restavamo più gli abitanti ci trattavano bene… Be’ – ironizza – penso che facessero la stessa cosa con Daesh…». S’interrompe e ridacchia, poi torna serio: «No, be’, noi non li minacciamo, i curdi sono tranquilli, generosi, non sono violenti. Dovunque siamo passati noi è andato tutto bene. Al contrario, ci sono stati problemi con le FSA, la Free Syrian Army. Abbiamo avuto molte lamentele per causa loro: rapine, violenze, furti…».

Anche sulle alleanze i curdi sono ondivaghi. Lo sono stati nel corso della storia, continuano a esserlo anche in Siria: c’è chi insinua ad esempio che siano alleati di Assad, nonostante il fatto che dal regime siano stati per decenni emarginati, maltrattati e discriminati.

William spiega che non è proprio così: «No, con Assad c’è un cessate il fuoco. Abbiamo smesso di spararci addosso, ma regolarmente, come è successo l’anno scorso a Qamishlo due volte, e poi a Hasaka, la tregua traballa. Sono storie di poliziotti, di checkpoint e poliziotti che vogliono passare, non si fermano e allora si sparano addosso. Sono più provocazioni locali che veri problemi di fondo».

Una tregua armata, insomma, certo non un’alleanza. Difficile chiarire anche la situazione rispetto alla Russia: «Sì, il regime è appoggiato dalla Russia, mentre a noi i russi non forniscono un grande supporto: hanno cominciato un po’ nella regione di Afrin, ma all’inizio non era affatto così. I russi combattono solo contro la Free Syrian Army, Daesh e Jabhat al-Nusra, e noi a un certo punto eravamo alleati con alcuni gruppi della Free Syrian Army, che però adesso si sono trasformati. La maggior parte ha ripreso la sua bandiera. Perché si tratta di molte milizie locali diverse, che a un certo momento si sono raggruppate sotto la bandiera della FSA, quella verde e nera con le tre stelle, ma non avevano davvero un comando centrale. Poi tutti quelli che erano democratici o di spirito aperto sono stati uccisi o sono entrati nello YPG, adesso restano solo delle milizie locali. A volte è gente perbene, per la maggior parte è una mafia, e per il resto sono islamisti. Noi ne abbiamo avuto bisogno a Tal Abyad e un po’ a Manbij. Davamo loro qualcosina, qualche checkpoint, cose così, ma senza mai fidarci del tutto. Io sono stato rapinato da questa gente, hanno i loro RPG, i loro mitragliatori, non bisogna fidarsi, non sono degli alleati. È che non sanno da che parte stare, il regime è contro di loro, si sono attirati l’inimicizia di Daesh, di Jabhat al-Nusra e degli altri gruppi islamisti, quindi per un po’ si sono alleati con i curdi perché non avevano più niente da perdere, e noi ne avevamo bisogno per arabizzare un po’ il contingente. Adesso vedo che la maggior parte delle unità arabe hanno ripreso le bandiere delle milizie originarie, e poi soprattutto adesso noi usiamo le SDF, le Syrian Democratic Forces».

Le SDF che presto William raggiungerà per l’ultima battaglia, quella di Raqqa. Una volta sconfitto Daesh, che cosa sarà dei curdi, finora visti come degli eroi? «Penso che ci metteranno tutto il tempo che possono con Raqqa – ipotizza il combattente -. Perché una volta che Raqqa sarà caduta non avranno più leverage, non avranno più scuse per giustificare il sostegno degli americani, che già non bombardano moltissimo. Sul terreno hanno i loro blindati, e poi c’è un po’ il sostegno dell’aviazione, ma nelle dichiarazioni ufficiali non dicono un granché, quindi immagino che una volta che non avranno più Raqqa… sì, dovranno cercare di negoziare per bene sul dopo, prima di farla finita con Daesh, perché una volta che sarà finita, non so chi li aiuterà. Poi certo, con Assad non penso che ci saranno troppi problemi perché i siriani non ne possono più della guerra, quindi penso che per Assad non sarà facile mobilitare della gente per andare a battersi contro i curdi, che oltre tutto non sono bellicosi. Invece la Turchia, quello è un vero pericolo. Se si scontrano con i turchi, diventerà molto difficile per loro».

Sono le quattro meno un quarto, William deve lasciarmi, ci salutiamo. Ho ancora diverse ore prima di prendere il mio treno per Lione, non ho appuntamenti e non ho voglia di fare la turista. Ma ci sono dei posti che voglio vedere, almeno da fuori.

Chiedo allora al banco se posso lasciare la valigia, tornerò a prenderla più tardi. I camerieri – uno dei quali mi sembra essere il gestore – sono di una gentilezza che non ti aspetteresti a Parigi. Mi indicano un angolino nascosto da una tenda dove posso lasciare il bagaglio.

Esco, e cerco la mia meta su Google Maps. In dieci minuti sono davanti al Bataclan, dove una targa ricorda «le vittime assassinate e ferite in questo luogo il 13 novembre 2015». Altri dieci minuti dopo il mio pellegrinaggio si conclude di fronte al portone dove nel gennaio 2015 aveva sede Charlie Hebdo. Qui un’altra targa commemora quelle vittime che hanno spinto William ad andare a combattere un nemico che, lui sì, non conosce confini.

In bocca al Leone, heval William. Vai ad abbattere l’ultima frontiera.