Un racconto di Gaia Grassi
“Non trova che ‘eskimo’ sia una parola veramente strana? La prima volta che l’ho ripetuta mentalmente fino a farle perdere il suo significato… Ha presente quando si ripete una parola in continuazione fino a ridurla a un semplice ammasso di lettere? Ha presente? Non faceva mai questo gioco da piccola? Dicevo, la prima volta che l’ho ripetuta mentalmente fino a farle perdere il suo significato ho provato una specie di tristezza. Credo sia colpa di Guccini. Che la sua Eskimo mi sembra una delle canzoni più tristi del mondo. E ho pensato alla polvere. Alla polvere che si deposita su un vecchio capo riposto in cantina o su una canzone non ascoltata da troppo tempo. Ma poi ho riso un sacco. Ah, se ho riso un sacco. Quindi direi che, sì, ora ‘eskimo’ è una parola che mi fa ridere tantissimo. Una parola magica. E mi piace.”
“Scusi, ma dice a me?”
“Sì.”
“Ma lei è pazza.”
Quel giorno Viola stava bene.
Il giorno precedente no. Aveva avuto paura. Paura della bruttezza. Lei che amava così tanto il bello aveva temuto di rimanere schiacciata dalla bruttezza di un luogo in cui doveva per forza recarsi, dalla bruttezza di una massa di persone che sicuramente avrebbe incontrato, persone dalle voci gracchianti, piene di decibel e di odio da sputar fuori. E poteva scommetterci che li avrebbero sputati tutti lì, in faccia a lei. E non sapeva come proteggersi per non esserne contagiata. Lei non era così e non voleva mischiarsi a quella gente, ma non aveva altre possibilità. Poi però era successo qualcosa: le era stato detto che una parola avrebbe potuto salvarla diventando il suo scudo. Che sarebbe bastato ripeterla inserendola in una frase ogni volta che avrebbe avuto bisogno di una via di fuga. E che quella parola sarebbe stata “eskimo”. Allora Viola aveva sorriso e la paura era passata.
E così quella sera era tornata a casa di buon umore e sulla metro aveva deciso di cucinarsi qualcosa di buono. Era metà novembre, il supermercato era invaso dalle zucche e lei non aveva ancora fatto i ravioli. Beh, se si fosse messa a fare anche la pasta avrebbe cenato a mezzanotte, ma comprare la pasta fresca già pronta e fare solo il ripieno le sembrava un ottimo compromesso. E così fu. Si era presa anche un prosecco di Valdobbiadene e una miniporzione di profiterol. Poi aveva guardato un po’ la televisione. Aveva alzato il riscaldamento per poter indossare la sua mise-preferita-da-sera-in-casa che era tutt’altro che calda. Ma con quel golf rosso, un po’ troppo leggero, che le arrivava a metà coscia non le piaceva indossare le calze, quindi non le restava che scaldare di più la casa. Era rimasta così, mezza nuda e rannicchiata sulla poltrona di pelo, e poi era andata a letto. Presto. E aveva dormito benissimo.
La mattina successiva aveva fatto una supercolazione con tè e Galletti, aveva fatto una lunga doccia bollente e si era vestita per bene. Alla fine aveva optato per quella gonna longuette di grisaglia che aveva comprato pochi giorni prima. L’aveva vista nella vetrina di un negozio del centro ed entrando per provarla era inciampata in un gradino cadendo rovinosamente, a volo d’angelo. Ma era perfetta quella gonna e l’aveva acquistata ugualmente, perché, no, quella caduta non voleva dire proprio nulla. Quella mattina, aprendo l’armadio, aveva pensato che avrebbe voluto volare per poter guardare tutto dall’alto, e quindi quella longuette le era sembrata la scelta giusta.
Era uscita di casa. Pioveva, mannaggia, ma aveva i suoi stivali di gomma arancioni. Aveva preso la metro. La rossa. Lì aveva visto una ragazza sorridere con piacere sfogliando alcune fotografie che aveva fatto stampare. Viola l’aveva guardata a lungo, con concentrazione, affinché quella ragazza si accorgesse del suo sguardo. E Claudia (sì, credeva proprio si chiamasse così: aveva la faccia da Claudia) se ne era accorta alla fine, perché a un certo punto aveva ricambiato lo sguardo, sostenuta o forse infastidita. Viola, senza pensarci due volte, le aveva detto “Staresti bene con un eskimo”, aveva sorriso ed era scesa a San Babila per procedere a piedi. Era pronta. Ora lo sapeva.
Viola era in anticipo. Non riusciva mai a essere puntuale: o in ritardo o in anticipo. Sempre. Ma quella volta non voleva fare tardi. Aveva passeggiato per il centro entrando in ogni pozzanghera e poi si era diretta verso il luogo X. Si era fermata per comprare una penna a sfera. Ne voleva una giusta, per firmare bene. Aveva scelto una Parker rossa con l’inchiostro blu: non aveva avuto dubbi, perché sembrava volare sulla carta.
Poi era arrivata. Ed erano ancora loro due. E il loro bene. E la loro lontananza. Avevano sorriso, si erano abbracciati ed erano passati sotto il metal detector. Ad accoglierli, con il sorriso più bello e accogliente possibile, c’era Francesco, il loro amico e avvocato. Elegante nel suo abito di alta sartoria, li aveva accompagnati lungo strettissimi corridoi, spogli, un po’ grigi. Ma Viola era calma, con i suoi stivali arancioni e il suo eskimo a proteggerla. Mangiava tutto con gli occhi: non voleva perdere alcun dettaglio.
“Viola, dimmi qualcosa.”
“Eskimo.”
“Cosa?”
“Eskimo.”
“Ok, ho capito. Allora te la dico io una cosa. Sai che un mio vecchio collega mi ha raccontato che da qui sotto parte un passaggio segreto che porta in piazza Duomo? Ti piace questa cosa?”
“Sì.”
Ma non voleva parlare con il suo avvocato. Con nessuno. Non voleva essere distratta. La sala d’attesa, forse troppo grande, era vuota. Solo due distributori del caffè, due carabinieri panzettoni e sportelli informazioni senza alcuno che volesse informarsi.
A un certo punto una voce aveva fatto il suo nome: era il momento di preparasi. Il corridoio dell’aula era come un suq. Ex coppie che litigavano per il mantenimento dei figli. Un uomo con i capelli untissimi che, stremato, ascoltava le richieste della ex moglie: “Avvocato, specifichi che deve pagarmi anche il trasporto dei figli.” Una donna truccata malissimo e vestita peggio annuiva e diceva che era vero, che il trasporto era importante. Viola si chiedeva dove fosse finita la dignità. Si era voltata per vedere se magari fosse solo rimasta un passo indietro, ma no. Dietro c’era solamente un avvocato che chiedeva a un altro avvocato che cosa dovesse fare per saltare un po’ di coda. Evidentemente anche lui si era distratto un attimo quando la Fatina della Dignità aveva elargito i suoi doni. Lì accanto un altro avvocato aveva appiccicato un orecchio a una parete per origliare chissà cosa.
Finalmente si era aperta la porta e Francesco l’aveva spinta dentro. La stanza aveva una finestra grandissima che dava su via Larga e si vedeva benissimo il Duomo. Che bello che era il Duomo. Con quella luce grigia sembrava ancora più rosa. Si era seduta ed era entrato il giudice. Era una donna, magra magra, sui 40 anni, con un naso aquilino, un abitino striminzito blu scuro e capelli lunghi e crespi di color marrone, anche se si intravedevano tracce di una tinta rossa troppo sbiadita. Il giudice aveva letto velocemente il verbale – mentre loro si stringevano forte la mano sotto il tavolo – e poi li aveva guardati a lungo, in silenzio. “Siete sicuri?”, aveva aggiunto. “Sì”, avevano risposto all’unisono. Allora il giudice aveva dato loro il foglio da firmare: Viola aveva preso la Parker e firmato con mano decisa e leggera. Poi aveva passato a lui il foglio e la penna, lasciandogliela in regalo. Si era alzata, aveva salutato, ringraziato, preso il suo eskimo ed era uscita. Cantando.
Milano, 19/11/13