Le tante difficoltà della vita del ricercatore nella lettera di uno storico che decide di abbandonare l’Accademia
Di Massimo Piermattei, dalla nota pubblicata sul suo profilo Facebook
Ciao sono Massimo, ero uno storico dell’integrazione europea, ho 39 anni e ho deciso di smettere con l’Università. Se partecipassi a un gruppo di auto-aiuto questo pezzo inizierebbe così. Ma non è un gruppo d’auto-aiuto, è solo la mia storia e quelle che seguono sono alcune riflessioni sul mio percorso accademico che ho deciso di mettere nero su bianco. Forse sì, anche a scopo “terapeutico”, per me stesso, certamente, ma magari non solo. Magari può tornare utile anche ad altri/e che hanno affrontato, affrontano o affronteranno le medesime difficoltà e si troveranno davanti agli stessi bivi; o quantomeno per chiudere questa esperienza senza finire per essere una sorta di meteora.
Quando lasci questo lavoro, per l’Accademia smetti di esistere, sei una persona di cui è difficile parlare, o peggio, rimangono solo le “narrazioni” di chi è rimasto: “Sai, non aveva più voglia di fare questo lavoro…”, oppure “era preso da altro”, e ancora, “non ha avuto pazienza”. Sei come una lucetta lampeggiante in un vecchio film con Bud Spencer e Terence Hill (Nati con la camicia – la fissa per le fonti rimane!): “Ehi capo, hanno ucciso il nostro agente a l’Avana”. Una lucetta che prima c’era e ora non c’è più. Prima di smettere di lampeggiare, dunque, mi piace l’idea di buttar giù un po’ di pensieri, senza uno scopo o un ordine preciso. Da prendere così come sono, con imprecisioni, leggerezze e semplificazioni!
È la mia storia e la racconto come voglio.
Chi sono? Iniziai a studiare la storia dell’integrazione europea all’Università e capii che mi sarebbe piaciuto studiare e fare ricerca: fu un vero e proprio colpo di fulmine. Dopo il dottorato – che trovai quasi per fortuna dopo averne rifiutato uno senza borsa che mi sarebbe costato troppo – ho quindi iniziato a “farmi le ossa”: un periodo di ricerca all’estero, le collaborazioni, l’assegno di ricerca, i contratti d’insegnamento – tutti step necessari sia a garantirmi le risorse necessarie “per campare”, sia ad articolare un percorso accademico attraverso il quale provare a “entrare”, a diventare professore.
Ho scritto due monografie, più di venticinque tra saggi, articoli in riviste in italiano e in inglese e partecipato a parecchi convegni-seminari-lezioni nazionali e internazionali portando così in giro per l’Italia, l’Europa e negli Stati Uniti, insieme al mio, anche il nome dell’Università per la quale lavoravo – se interessa l’elenco quasi aggiornato di ciò che ho fatto si trova qui. Ho anche scritto “dalla A alla Z” un progetto che ha fatto vincere una cattedra Jean Monnet.
Ma non voglio parlare di questo. Come scrivevo sopra, nei giorni scorsi ho finalmente trovato la forza di portare a conclusione un percorso travagliato nel quale mi dibattevo almeno da un paio d’anni – ma le cui origini risalgono a diverso tempo prima, dalla fine stessa del dottorato, direi oggi – e che ho cercato costantemente di rinviare nella speranza che qualcosa cambiasse. La svolta, il gol al novantesimo.
Ma la svolta non c’è stata, niente zona Cesarini. E quindi l’improrogabilità della scelta: restare o andar via? Non so se ho davvero preso la strada meno battuta, come nella celebre poesia di Frost cui tanto tengo, ma ho deciso.
Tengo subito a precisare che quanto scrivo non vuole essere un modo, un po’ vigliacco, di togliersi qualche sassolino a giochi fatti; né una stanca lamentela del sistema universitario italiano, già sentita mille molte, frutto della “delusione”, della rabbia e delle tante emozioni negative – con le quali comunque mi sono dovuto confrontare e che devo ancora vivere fino in fondo.
Infatti, quando si prova a entrare nel mondo accademico italiano, le sue regole, scritte e (soprattutto) non scritte, si conoscono, si sanno. Non si può dire “io non lo sapevo”, “è stata una congiura”. Si accetta liberamente e consapevolmente di giocare: si spera magari che quelle “storie” sentite, raccontate, viste, riguardino altri…perché noi lo meritiamo, perché chi ce la mette tutta…prima o poi…, perché il merito alla lunga viene fuori. È pur vero che è un sistema che ti seduce attraverso mille tentazioni (contratti, convegni, lezioni, pubblicazioni, ecc.) alimentando le tue speranze. Ma sai a cosa vai incontro, anche se non in modo pienamente consapevole – specie all’inizio.
Ma il tempo passa e quando la speranza inizia a intaccarsi, allora pensi: in fondo basta “ingoiare” ancora un po’. E quindi appelli, seminari, lezioni gratuite grazie ai quali l’ordinario di turno appalta parte delle ore che dovrebbe fare direttamente perché per questo, tra l’altro, viene pagato. Lui/lei, non tu. Sicuramente ti formano, ti aiutano a capire come impostare e affinare il lavoro, a trovare un tuo stile, come si gestisce un laureando, ecc. Ma senza risorse è un semplice, come si potrebbe chiamare?, “tirocinio accademico non retribuito”? Stage? Lo fai perché fa parte delle regole del gioco e pensi ti possa far guadagnare punti. Ma non siamo nelle graduatorie per la scuola pubblica: i punti non contano.
La prima cosa che mi viene in mente, abbastanza banale lo so, è che la costante e drastica riduzione del finanziamento dell’Università italiana, unita alla maggiore chiusura del reclutamento (ricercatori a, b…z per non parlare del fantastico mondo dell’abilitazione scientifica nazionale dove può capire che i commissari abbiano meno titoli degli aspiranti abilitanti) ha fatto sì che i professori (ordinari) abbiano visto accrescere in modo esponenziale il loro già enorme potere.
Sono come l’imperatore nel Colosseo: pollice su, pollice giù. Tu puoi andare avanti, tu no. Pochi soldi, pochissimi posti.
Certo, si può sempre acquistare un biglietto per partecipare alle “lotterie” tipo la vicenda SIR, ma, appunto, siamo pienamente nel mondo dei gratta e vinci. Ritenta, sarai più fortunato. Riforme sempre sbandierate al fine di premiare il merito e come mezzo di rottura dei rapporti di stampo feudali che si sono instaurati negli atenei. Riforme che però hanno penalizzato solo i non strutturati – come quei casi in cui dopo un certo numero di anni in cui hai goduto di contratti di insegnamento non ne puoi avere più: una misura tesa a contrastare il precariato ma che, di fatto, lo incentiva. Cornuti e mazziati.
Quello del merito è un ritornello stucchevole perché, come già detto, pochi soldi e pochi posti fanno sì che ci sia una lotta tremenda tra chi è dentro e chi è fuori e, ancor peggio, una lotta tra ultimi – quanti piccoli “baroni in erba” ci sono tra i precari! Di fatto, per entrare hai bisogno di un supervisor (un “maestro”) col quale costruire un percorso spendibile in Accademia e di un’altra persona che ti “difenda” nei concorsi – ergo, che ti faccia entrare o comunque che ti garantisca posizioni e risorse. Le due figure spesso coincidono: le eccezioni, come i concorsi dove a sorpresa non vince il favorito di turno – espressione suggestiva per non dire “la persona per la quale è stato indetto il concorso” – confermano la regola e permettono al sistema di auto-giustificarsi e legittimarsi (“Vedi, c’è un concorso pulito e aperto! Non c’è bisogno di toccare il reclutamento e di renderlo più chiaro”).
Se non hai queste due figure sei un orfano e per gli orfani non c’è futuro: nessuno ti adotta. Magari ti possono dare consigli e fare da supervisor, certo, ma lì finisce. E io, da un po’ di tempo a questa parte, sono un orfano. Non ho un supervisor – e la doppia bocciatura che ho ricevuto all’ASN lo certifica in modo chiaro – non ho una persona che mi difende o che mi aiuta a trovare qualche risorsa per me (anche fossero poco più di mille euro necessari per pubblicare il frutto di una ricerca): una formula, quella del “non aderire e non sabotare” che è poi un esplicito pilatesco sabotaggio. Pilatesco perché è un atteggiamento privo del coraggio necessario per dirti “per te non c’è posto, fai altro”.
E cosa possono fare gli orfani che ostinatamente vogliono provare comunque a costruirsi una carriera? Si dibattono tra piccoli contratti di insegnamento e collaborazioni varie. I primi, dandoti l’opportunità di “tenere un piede dentro” e di farti chiamare professore, sono contratti capestro dove per pochi soldi hai una enorme mole di lavoro da fare (es. l’ultimo contratto che ho avuto era di 1500 euro lordi per 60 ore di lezione più una decina di appelli d’esame) i secondi, oltre a essere tassati in modo clamoroso, come se si trattasse di collaborazioni fatte da persone già autonome nel reddito e nella vita, ti portano via comunque un bel po’ di tempo. Ma hanno una sola cosa in comune: sottrarti una marea di energie per raccattare qualche risorsa.
Cosa viene penalizzato? Naturalmente la ricerca che è quindi messa da parte.
Io ho adorato ogni singola ora di lezione fatta, il rapporto con gli studenti, o con i docenti (delle scuole) da formare, ma negli ultimi anni la didattica mi ha impedito di continuare a scrivere e studiare con regolarità. Ma non si campa di aria e quindi accetti quello che offre il convento diventando quello che a me piace definire un “marchettaro della ricerca” cioè quel fenomeno per il quale scopri improvvisi interessi per cose di cui non te ne importa nulla, ma magari ti danno 500 euro, magari 1.000.
Magari dopo mesi o anni dalla chiusura del lavoro, come mi è capitato diverse volte. Il tutto in un ambiente che ti umilia, in cui devi aspettare settimane o mesi per avere un appuntamento cruciale (a me è capitato di sentirmi dire di farmi fissare un appuntamento a cavallo di Pasqua e arrivato a Pentecoste stavo ancora lì a chiedere umilmente udienza senza ricevere risposta). Un ambiente che non capisce che qualche mese di “sfasamento” tra un contratto e l’altro o peggio, un contratto che salta ti può creare enormi difficoltà: “ti ho detto che l’assegno non potrà essere rinnovato?”; “ti ho detto che di quel progetto non se ne fa più nulla?”: e tu ci avevi investito tempo e risorse. Dietro queste dinamiche, da entrambi i lati, ci sono persone. Solo da quest’anno è prevista l’indennità di disoccupazione per alcune figure di precari dell’Università: sono palliativi e tagliano fuori diverse figure professionali, come i professori a contratto – che tengono in piedi una marea di corsi di laurea degli atenei italiani.
Certo, si può sempre andare all’esterno, no? Bandi europei, università straniere. Su questo aspetto una cosa voglio dirla, per quello che ho visto e per quello che ho fatto in questi anni nell’Università italiana. Sicuramente condivido e comprendo le motivazioni di chi ha lasciato l’Italia per l’estero (o meglio, è stato costretto a lasciare, le libere scelte non sono tantissime), ma negli ultimi anni si sta raggiungendo una sorta di “esterofilia” che è imbarazzante.
Grazie alla superficialità dei media e della classe politica è passato il paradigma per cui se lavori all’estero sei bravo, se sei rimasto in Italia, come minimo, sei complice e connivente col sistema.
L’ipotesi che sei rimasto perché volevi provare a cambiare qualcosa o solo perché non potevi espatriare, non è presa in considerazione. Di conseguenza, i giornali sono pieni di storie toccanti di “poveri emigranti”, che sono costantemente presentati come “l’eccellenza” cacciata dai baroni e dai raccomandati che sono rimasti a fare la bella vita. Non è così o meglio, non è solo così. Sarebbe bello che si raccontassero le storie e si provassero a risolvere i problemi anche di chi ha dedicato tempo, risorse ed energie alle Università italiane. Che se continuano a sfornare eccellenze che poi popolano il mondo, forse tanto male non sono. Pur operando in un contesto imbarazzante – sì è una ripetizione di un termine usato da poco, ma ci sta tutta. Il contesto è imbarazzante e le responsabilità tanto gravi quanto precise e cristalline.
Si potrebbe pensare che in fondo se non riesci a entrare puoi sempre giocarti le competenze acquisite nel mondo del lavoro, quello vero. Sempre ammesso che si sappia precisamente di cosa si tratta, ma che importanza ha in Italia il dottorato di ricerca? Ancora oggi, i formulari recitano sempre le stesse laconiche opzioni: diploma, laurea, altro. Ecco cosa è il dottorato nel mondo del lavoro e per le istituzioni italiane: altro. Non la dimostrazione che sai fare un progetto, organizzare il tuo lavoro e magari quello degli altri per raggiungere gli obiettivi, innovando così il campo nel quale lavori. È altro, un pezzo di carta, inutile come quelli presi in precedenza, errori di gioventù, quasi da far cancellare sennò rischi di avere problemi a cercare lavoro, come tristemente ammetteva l’antropologo nel primo episodio della trilogia di “Smetto quando voglio”.
Dietro queste tare ciò che rimane sconcertante e inaccettabile, almeno per me, è il talento buttato di una marea di giovani studiosi, anzi non più giovani: solo in Italia sono considerati giovani gli ultratrentenni o i quasi quarantenni come me. Quante persone ho incontrato nei miei dieci anni di attività. Quanto talento, quante potenzialità per innovare le discipline, la ricerca, la didattica. Quanta rabbia nel vederli/nel vederci appassire, svanire, lasciare. Oggi sono tra questi. In un convegno sulla storiografia italiana e l’integrazione europea avevo messo in luce come di oltre quaranta giovani studiosi che avevano partecipato a un ciclo di convegni a metà degli anni 2000, solo due oggi sono strutturati – le slide di quell’intervento sono qui. Il resto sono ancora precari o hanno lasciato.
E cosa vuol dire se a quasi quarant’anni non hai ancora una prospettiva chiara di carriera? Semplice, che i giovani studiosi hanno una sola scelta: o tentare la carriera, o costruirsi una famiglia.
Le due cose, troppo spesso, assomigliano a un gioco a somma zero. Se punti sulla carriera, una famiglia forse la costruirai molto, molto, in là, con tutto quel che ne consegue. Se scegli la famiglia, sai che le tue opportunità di carriera si riducono drasticamente; non c’è differenza di genere in questo: donne e uomini sono perfettamente uguali. I figli, poi, una catastrofe! Sei pazzo? Quanti sacrifici ha fatto la mia giovane famiglia, mia moglie e i miei due bimbi, perché io potessi ancora tentare. Ma, ripeto, le responsabilità sono unicamente mie non del sistema le cui regole conoscevo perfettamente e ho accettato.
Un’altra considerazione da fare, una delle ultime e così entro un po’ più dentro all’ambiente che conosco meglio, è che se ti occupi di discipline umanistiche sei abbastanza “sfigato” – ricordo che non c’è blind-refereee quindi posso usare i termini che mi pare e piace! Già, perché da diversi anni si è assistito all’irresistibile ascesa delle “tecniche”, della ricerca “quella vera”. La storia? Roba per perditempo, che cosa ci si fa con la storia?. Ed ecco che mentre viviamo nella più grande crisi dell’Europa dal secondo conflitto mondiale e in un contesto internazionale tremendamente difficile da interpretare, con nubi che si avvicinano da ogni lato del pianeta, la storia è sempre più marginale: non solo nelle Università, ma nel sistema scolastico nel suo insieme. Non esiste un professore di storia di ruolo, non esiste uno spazio specifico per insegnare la storia e il funzionamento dell’Unione europea.
Il tutto è lasciato alle sensibilità dei singoli docenti e nelle attività di formazione che ho fatto, per fortuna, ce ne sono! Ma sono gocce nell’oceano. E nelle Università si preferiscono altre discipline, come quelle politologiche o legate alla comunicazione perché “più trendy”. Ma la profondità e la contestualizzazione che solo la riflessione storica è in grado di dare, che fine fanno? Gettate nello scarico, tirare la catena. Lo studio del passato è scomodo perché troppo spesso denuda il presente, lo smaschera, pone interrogativi ineludibili, e quindi non è pop, non si muove con inglesismi, con slogan, con formule. Lungi da me il denigrare tutto ciò: viva i laboratori! Viva le macchine! Ma il trattamento riservato alla storia negli ultimi anni è stato vergognoso, senza mai porsi il problema dell’impoverimento culturale e di memoria che questo vuoto porta con sé – certo, le colpe autolesioniste degli storici in queste dinamiche sono enormi, ma non voglio mica scrivere una monografia!
Ho già detto che se scegli le discipline umanistiche sei uno sfigato. Se studi storia, poi, sei lo sfigato tra gli sfigati. Ma se tra tutte le storie possibili, scegli quella dell’integrazione europea, beh, allora ci troviamo davanti allo sfigato per eccellenza.
Già perché per chi si occupa di storia contemporanea troppo spesso sei etichettato come uno che si è troppo spostato sulle relazioni internazionali ed è troppo politologo. Ma per chi si occupa di storia delle relazioni internazionali sei troppo contemporaneista e comunque troppo politologo – che non guasta mai. E quindi? E quindi dovresti essere furbo e magari ripiegare su un bello studio “classico”, che ne so, la condizione dei ferrovieri a San Martino al Cimino durante il fascismo, oppure la straordinaria biografia politica del portaborse del vice segretario della sezione del partito comunista della frazione di Borghetto. Senza un tuo specifico settore disciplinare finisci per essere tagliato fuori dagli ambiti di riferimento. In un momento storico, come ho detto, che richiederebbe invece ben altro.
Se vuoi lasciarti aperti più orizzonti e non chiuderti nell’infelice mondo della storia dell’integrazione europea puoi sempre pensare che puntando sull’interdisciplinarietà, o sulla multidisciplinarietà, riuscirai a rendere più solide le tue prospettive. Errore. Nonostante si sbandierino in continuazione questi termini, la realtà è una sempre più travolgente micro-settorializzazione e una difesa a oltranza del proprio piccolo giardino, anche se intorno va tutto a fuoco. Se sei interdisciplinare, in altre parole, non hai bandiera e non sei etichettabile dal sistema dei settori scientifici disciplinari, ergo, sei a rischio “orfanotrofio”. E così il cerchio si chiude.
Ma sono stato troppo lungo e certamente un po’ rozzo e superficiale. Concludo. Io lascio, principalmente per una questione di dignità e di giustizia.
Ho sempre sentito miei i versi di una canzone degli Stab (15 anni): “La voglia di viver dentro te/Onesto come tuo padre/La voglia di esser nel giusto/Come ti insegnava tua madre”. Le ho messe nei ringraziamenti della mia tesi di laurea, in quella di dottorato e anche nella prima monografia pubblicata. È proprio a quelle parole che ripenso oggi e nelle quali trovo ancora senso per capire che ho preso la decisione giusta. Che quello che ho fatto non lo rimpiango e non lo rinnego perché è stata una bell’avventura e mi ha fatto crescere come persona e come uomo. Come Truman Burbank, esco dalla porta: “Buongiorno! E casomai non vi rivedessi: buon pomeriggio, buona sera e anche buona notte”. Io parto alla ricerca delle mie Isole Fiji. Non è quindi una bandiera bianca, una resa, ma un issare la vela per tornare in mare aperto.
Come scrisse Paolo di Tarso a Timoteo, anche in questo caso parole cui tengo tantissimo, “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. Smetto quando voglio.