Questa è una storia che parla di migrazione, del potere terapeutico dell’autobiografia e di come si possa scegliere di contrastare il proprio destino uscendone vincitori. È la storia di Lireta Katiaj e del suo diario, diventato un libro e uno spettacolo teatrale.
di Gabriella Grasso
Lireta nasce a Vlore, in Albania. Per aiutare lei e i suoi fratelli a ingannare la fame, la madre li invita a immaginare che in tavola, al posto del solo pane, vi sia anche il formaggio. Il padre diluisce la frustrazione con la grappa, poi la sera picchia moglie e figli.
Lireta resiste a tutto: alle botte, alla pressione del padre per combinarle un matrimonio, all’obbligo di lasciare la scuola che adora, alla tentazione del suicidio, al rapimento da parte di chi la vuole portare in Italia come prostituta. Nonostante tutto trova l’amore e rimane incinta.
Affronta il parto in un centro medico abbandonato e poi un viaggio in gommone verso la costa pugliese – che con le sue luci ammalia il popolo albanese più di una sirena – alzando la figlia verso il cielo, al di sopra delle onde. Sopporta l’umiliazione della polizia italiana e il rimpatrio immediato.
E ancora non si dà per vinta, sostenuta da una certezza viscerale: la sua bambina merita una vita migliore della sua. «Oggi la piccola che ha attraversato il mare con me frequenta l’università e ogni volta che ci penso mi commuovo. Dico a me stessa: ce l’ho fatta», e mentre parla il telefono mi restituisce la sua voce che trema.
Ce l’ha fatta davvero, Lireta. Gli dei che aiutano gli audaci, dopo aver assistito immobili alla fine del suo matrimonio con un uomo diventato ostile tanto quanto la sua famiglia, la premiano con una nuova Patria: l’Italia, la Sicilia. E poi una nuova lingua, un nuovo amore, un nuovo bambino.
Un giorno, sotto il cielo azzurro di Modica, in provincia di Ragusa, Lireta inizia a scrivere.
«Perché quanto ti rendi conto che non hai i soldi per andare da un analista, ma sei consapevole di avere molti traumi da elaborare, la scrittura è l’unico strumento che hai», racconta.
«Ho iniziato prendendo appunti su dei pezzetti di carta, nel tempo che mi ritagliavo sul lavoro quando, dopo ore passate al computer, avevo bisogno di far riposare gli occhi. Poi ho cominciato a riempire di parole un album fotografico e alla fine l’ho affidato alla maestra dell’asilo di mio figlio.
Un po’ perché volevo condividere con lei la mia storia, un po’ perché desideravo sentire il suo parere, avendo scritto tutto in italiano che non è la mia lingua madre. È stata lei a insistere perché lo mandassi all’Archivio Diaristico Nazionale: in queste pagine, mi diceva, non c’è solo la tua vita, ma quella di molti altri come te. È un documento storico che racconta un’epoca».
Così l’album viene stato consegnato alle cure dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, vicino Arezzo, che dalla sua fondazione nel 1984 ospita diari di gente comune e ogni anno istituisce un premio: Lireta è arrivata finalista nel 2012.
Il regista e attore Mario Perrotta si è innamorato della sua storia, ne ha fatto un monologo per Raitre e poi, a partire da quello, uno spettacolo teatrale: Lireta. A chi viene dal mare, messo in scena per la prima volta all’interno del progetto Versoterra, realizzato sulla costa salentina nel settembre 2016. Infine la casa editrice Terre di Mezzo lo ha pubblicato, esattamente come lei lo ha scritto, con un titolo che racchiude in tre parole il nucleo profondo di questo racconto: Lireta non cede (euro 12).
Oggi la ragazza fuggita dall’Albania ha 40 anni. È in Italia dal 98. «Inizio ad avere i capelli bianchi e ne sono contenta. Sì, perché per molto tempo essere una giovane carina dell’Est mi ha creato problemi sul lavoro: gli uomini mi davano automaticamente del tu, mi trattavano come una “facile”», racconta.
«Però avere la pelle bianca mi ha aiutato: integrarmi è stato più facile. Non mi è mai toccato di sentirmi dire: “Brutto negro, vattene a casa tua”, come succede a tanti ragazzi africani. Io, quando posso, cerco di aiutarli: l’ho fatto da poco con un giovane nigeriano gentile, laureato, intelligente, che mi ha confidato le sue difficoltà. Ma devo dirlo: la Sicilia non è solo questo. C’è anche l’altra faccia, quella dell’accoglienza. Nei miei confronti, qui a Modica, è stato fatto un grande lavoro da parte di tutti per farmi sentire a casa».
La consapevolezza di aver vissuto una storia che per molti aspetti è paradigmatica di tante altre, Lireta ce l’ha.
Infatti nel libro racconta: «Ho voglia di scrivere perché ho paura che nessuno dei miei connazionali lo farà. Voglio lasciare traccia di quello che gli albanesi hanno passato». E durante la nostra conversazione telefonica aggiunge: «Ho voluto in qualche modo caricarmi del peso di una storia più grande di me.
Oggi ho smesso di guardare i telegiornali: non ce la faccio a vedere altri barconi che arrivano sulle coste italiane, non sopporto l’idea che la storia si ripeta, ancora. Mi sento crescere dentro una grande rabbia, perché penso che siamo tutti migranti. Abbiamo i piedi per mettere radici dove vogliamo, e io le ho messe qui, in Sicilia».
Anche questo lo ha fatto come tutto il resto: con determinazione. «Ammetto di non avere molti amici albanesi. Mi sento diversa da loro, perché io ho fatto di tutto per integrarmi. Sono andata a bussare alla porta dei vicini, ho imparato il dialetto siciliano. Quando arrivi in un posto devi adattarti, essere aperto: se chiudi la porta, resti isolato.
Però la cittadinanza non l’ho ancora chiesta. Non voglio farlo finché c’è un’opinione pubblica contraria al fatto che chi sia nato altrove possa dirsi ufficialmente italiano e votare», afferma decisa.
Ma della sua italianità Lireta è certa: «C’è stato un momento preciso in cui ne ho preso consapevolezza, ed è stato attraverso la lingua. Una mattina, diversi anni fa, mentre facevo colazione, ho guardato mio marito e mia figlia e ho esclamato: “È successa una cosa pazzesca: ho sognato in italiano!”. In quel momento mi è stato chiaro che questo è il mio posto: me l’ha detto il mio inconscio e l’inconscio non lo puoi controllare».
L’italiano di Lireta non cede è sporcato di tanto in tanto da qualche comprensibile errore (per scelta il suo linguaggio non è stato toccato); nel testo teatrale scritto da Mario Perrotta e interpretato da una straordinaria Paola Roscioli (con l’accompagnamento musicale di Samuele Riva e Laura Francaviglia), sono state inserite anche diverse parole in dialetto siciliano. «Sì, Mario è riuscito a tirare fuori la mia sicilianità, che io sento forte. D’altra parte ho vissuto più anni della mia vita qui che in Albania. Chissa è a me’ casa».
Nei miei laboratori di scrittura autobiografica premetto sempre che non esistono vite “banali” e che il percorso esistenziale di ciascuno di noi è straordinario a suo modo.
Nelle scelte che facciamo, nelle battaglie che combattiamo al fine di trovare noi stessi e disegnare la traiettoria della nostra esistenza, ci sono il dramma, la commedia, l’epica, la poesia. E la vicenda di Lireta ne è la dimostrazione. La Storia è fatta delle vicende dei singoli.
E la Storia d’Italia, oggi, si compone anche dei racconti dei migranti. Per questo l’Archivio Diaristico Nazionale, che dà casa a circa 7.500 manoscritti («Una grande famiglia!», commenta Lireta), nell’ambito del progetto DiMMi – Diari Multimediali Migranti lancia ogni anno un concorso aperto a racconti (non solo scritti: è possibile partecipare con video, disegni, fotografie) da parte di migranti che vivono o hanno vissuto in Italia. Perché il racconto di sé non è solo terapia: è eredità comune. Da incoraggiare, valorizzare, proteggere.