Sull’isola di Lesbo, davanti alle coste turche, tra i grandi campi profughi allestiti e gestiti quando dal comune quando dall’esercito, ce n’è uno unico nel suo genere. Una piccola realtà la cui amministrazione viene dal cuore pulsante dell’isola: i suoi abitanti.
di Andrea Governale ed Enea Fiore
foto: Marco Rosi
Il campo profughi di Pikpa si trova vicino all’aeroporto ed è l’unico dell’isola ad essere amministrato autonomamente dagli abitanti.
Pikpa è il primo campo profughi di Lesbo e nasce quattro anni fa. All’epoca l’emergenza degli sbarchi sull’isola era di tutt’altra entità e le istituzioni greche prestavano molta meno attenzione alla sua gestione.
Gli abitanti di Lesbo, molti dei quali discendenti da famiglie rifugiatesi sull’isola durante la guerra greco-turca, avevano ben impresso nella memoria collettiva il significato di parole come “fuga” e “salvezza”, e decisero di auto organizzarsi per garantire una degna accoglienza e chi sbarcava sull’isola.
Pikpa nasce sulle spoglie di un vecchio villaggio vacanze abbandonato su iniziativa di un pugno di volontari locali che da subito hanno ricevuto il permesso dal comune per il riciclo dello spazio e l’avvio delle attività.
All’interno del campo tutto il personale è composto da volontari, a parte poche figure chiave come dottori, psicologi o assistenti sociali, che sono assunti regolarmente e fungono da coordinatori del campo.
Al giorno d’oggi Pikpa è il campo d’accoglienza più ambito da chi sbarca sull’isola, ciò è dovuto alla sua gestione inclusiva in ogni attività e alla qualità dei servizi messi a disposizione.
Si calcola che in Grecia i tempi per il procedimento e le verifiche della richiesta d’asilo durino tra i sei e gli otto mesi. Quasi tutti, ad eccezione delle persone con problemi di salute gravi o situazioni particolarmente delicate, vengono scortati nel campo profughi di Moria dove attenderanno l’esito dei procedimenti burocratici. Da Moria, campo composto per la maggior parte da uomini partiti autonomamente come avanscoperta che puntano poi ad un futuro ricongiungimento familiare, i casi più delicati vengono trasportati nel campo di Pikpa. Nel campo abbiamo incontrato casi diversissimi tra loro: da gente ferita durante il viaggio a persone affette da distrofia muscolare, da ragazzi con necessità di dialisi giornaliera a madri sole con più di quattro figli.
Il campo è un rifugio per chi non ha i mezzi o le forze per poter sopravvivere nella precaria situazione in cui vessano i rifugiati nel resto dell’isola.
«Questo è di gran lunga il miglior campo di Lesbo, forse della Grecia intera!» afferma Yussef, malinese scappato dalla suo paese in seguito agli scontri tra jihadisti e forze governative.
«Solo un dottore può mandarti qua» dice mentre mette in mostra il braccio ingessato, «sono qua da poco e non vorrei tornare a Moria, la è pericoloso e siamo costretti a vivere come animali».
A Pikpa, a differenza degli altri campi, ci sono spazi comuni dove vengono organizzate attività per bambini e adulti oltre che piccole celebrazioni per le feste. Anche se la maggior parte degli abitanti del campo sono rifugiati stranieri, a Pikpa viene fornita assistenza anche alle famiglie greche in difficoltà. Molti rifugiati che arrivano a Lesbo sono fortemente traumatizzati: «abbiamo avuto molti casi di tentato suicidio» dice un infermiera del campo, «alcuni di loro sono molto giovani, sui venti anni circa, e provengono da realtà di guerra. Senza contare i traumi accumulati durante il viaggio per arrivare qua!».
Nel campo incontriamo Ahmed, un ragazzo di 22 anni proveniente da Falluja arrivato a Lesbo 4 mesi fa. Gli chiediamo cosa facesse prima di fuggire dall’Iraq e cosa lo ha spinto a intraprendere il viaggio: «Studiavo agricoltura all’università, ma sono dovuto scappare prima di riuscire a laurearmi».
Mentre disponiamo le pedine per una partita a scacchi ci racconta la sua storia: «Sono nato e cresciuto a Falluja, ricordo molto bene ogni momento passato nella mia città. Durante l’invasione degli americani nella mia città si combatteva furiosamente, i bombardamenti, le sparatorie e gli attentati erano all’ordine del giorno. Nonostante ciò, quella fu la fase meno pericolosa per noi civili. All’epoca era molto pericoloso uscire in strada, ma gli scontri erano tra nemici ben definiti: mujaheddin contro gli americani. Le perdite tra i civili erano solo “danni collaterali”» dice ripetendo queste ultime parole due volte.
«Quando gli americani se ne andarono, lasciarono la città ancora fumante e questa ritornò rapidamente ad essere una roccaforte di milizie armate. La più grande di queste,“Tanzim Al-Qaida”, imponeva la propria legge e colpiva sistematicamente noi civili. La situazione era critica, ogni giorno mi ripetevo che appena avessi finito gli studi sarei partito».
Ahmed prende qualche secondo per fare la sua mossa e riprendere il discorso in un buon inglese: «La situazione divenne insostenibile quando arrivò l’ISIS, si fecero largo con la forza e con le promesse. A differenza degli altri loro parlavano alla gente, promettevano che avrebbero protetto i sunniti e che avrebbero riportato ordine e giustizia la dove c’era un’anarchia criminale. In molti non gli hanno mai creduto: mio padre mi diceva sempre di non fidarmi di loro, ma purtroppo si imposero comunque con la forza e governarono con la paura. Mi disse che non potevo più aspettare, mi riempì una borsa e mi diede dei soldi dicendomi di andare in Europa e finire gli studi la. Pochi giorni dopo la mia partenza mi dissero che mio padre era stato rapito».
La partita finisce con una mia netta sconfitta. Uscendo all’aperto e accendendosi una sigaretta Ahmed continua: «Ho pagato un contrabbandiere per uscire dalle zone dell’ISIS ed entrare nel Kurdistan iracheno, e da li ne ho pagato un altro per entrare in Turchia. I soldati turchi ci rintracciarono e ci arrestarono sul confine».
«Dopo qualche giorno di interrogatori e accertamenti ci misero dentro un campo profughi enorme vicino al confine….. girava voce che ci avrebbero rimandati in Iraq e quindi decisi di scappare. Scappai con altri ragazzi e attraversammo il Kurdistan turco. Qua mi sono trovato in scene di guerra peggiori che nel mio paese!» afferma sgranando gli occhi. «Combattimenti per le strade tra turchi e curdi, palazzi che crollavano…» dice tra un tiro di sigaretta e l’altro continuando la lista delle atrocità in cui si era imbattuto. «Dopo qualche tempo e vari passaggi sono giunto sulla costa turca dove ho pagato l’ennesimo contrabbandiere che mi ha messo su una piccola barca e ci ha spinto fino alle acque greche. Ci sono voluti quattro tentativi per sbarcare finalmente in Europa».
«Quando sono stato portato al campo di Moria ho vissuto come un animale per tre mesi. Era pericoloso, sai è molto frustrante aspettare, senza nessuna certezza e senza la possibilità né di lavorare né di fare nient’altro, nell’attesa che qualcuno decida della tua vita» racconta Ahmed riferendosi ai sempre più numerosi Push-back verso la Turchia.
«Quando ero a Moria non riuscivo a dormire più di tre a notte, subito dopo il tramonto, perché faceva troppo freddo dentro le tende. Le guardie poi sono sempre aggressive verso di noi, hanno costruito anche delle celle improvvisate all’interno del campo dove ci rinchiudono per giorni».
Nel campo di Moria non è consentito l’accesso a nessun giornalista od operatore di ONG se non quelle poche che vi lavorano.
«Quando mi sono ferito al braccio durante una caduta di notte in un sentiero vicino al campo, un dottore mi ha visitato e mi ha mandato in “convalescenza” a Pikpa. Qua è completamente diverso, c’è un aria tranquilla, riesco a dormire al caldo e ad avere un rapporto umano con lo staff. Quando guarirò dovrei tornare a Moria, e sono molto preoccupato. Speso solo che le autorità abbiano deciso il mio destino per quel momento, vorrei arrivare in Germania per potermi costruire una vita tranquilla e un giorno riabbracciare la mia famiglia» Conclude Ahmed.
Veniamo invitati alla festa di compleanno di due bambini, che consiste in un grande buffet pomeridiano con dei giochi per i bambini. Ognuno all’interno del campo da una mano: chi aiuta allestendo gli spazi, chi si dà da fare in cucina, chi prepara i giochi e chi seleziona la musica. La sensazione di essere una piccola comunità, anche se momentanea, genera un senso di solidarietà e inclusione che non si percepisce in tutti gli altri campi dell’isola. I rifugiati lavorano e si spendono fianco a fianco con gli abitanti, dando una mano in base alle proprie capacità: i volontari insegnano l’inglese, il tedesco e il francese ai rifugiati, nel tempo libero, i rifugiati ricambiano insegnando l’arabo, il turco, il persiano o l’urdu ai volontari. Molte persone a Pikpa hanno storie simili a quella di Ahmed, alcuni chiedono di non essere né fotografati né intervistati perché sarebbe rischioso per la loro incolumità e per quella dei loro cari rimasti nel paese d’origine.
Dal racconto di ognuna di queste persone Pikpa risulta il primo luogo in cui hanno ricevuto un’accoglienza umana, in cui un’organizzazione dal basso gli ha permesso di relazionarsi con persone, e non con una burocrazia sorda.