Com’era umano lui

Se solo sapessimo ridere un po’ più di noi stessi, a godere di una Peroni famigliare davanti ad una partita di calcio nonostante le storture del mondo e ad ammettere che siamo tutti un po’ Fantozzi

di Nicolò Cesa

Paolo Villaggio se n’è andato. Attraverso la tragi-comica esistenza del Rag. Ugo Fantozzi, nato come protagonista di una serie di racconti scritti per l’Europeo negli anni ’60 dallo stesso Villaggio e divenuto libro prima e icona cinematografica poi, è riuscito a svelare le debolezze e le contraddizioni di un’epoca – quella dell’industrialismo, del mito dell’operaismo, che i sociologi tedeschi chiamavano “prima modernità” – con ironia, ferocia e stile.

Non lo abbiamo capito del tutto, Fantozzi. Abbiamo riso dei suoi sketch assurdi, quando la mattina prendeva l’autobus gettandosi dal balcone per risparmiare quei 20 secondi fatali che gli avrebbero fatto perdere il Posto di Lavoro; quando alla lotteria aziendale di fine anno, rito fondante e imprescindibile di quell’axis mundi che era l’azienda, organizzazione totale, il ragioniere aveva avuto la “fortuna” di vincere un viaggio a Montecarlo con il Mega Direttore Clamoroso Duca Conte Pier Carlo Ing. Semenzara; quando venne condannato a mettersi in ginocchio sui ceci dai più intelligenti, dai servitori della Causa anti-capitalista, dai filo-sovietici che però in URSS non ci andarono mai, a guardare “la corazzata Kotiomkin”, per essersi addormentato durante la proiezione.

In quegli spezzoni (certamente) comici risiedeva anzitutto la tragedia di una generazione perennemente in ritardo, le cui vite erano indissolubilmente aggrappate ad organizzazioni totalizzanti in grado di colonizzare le esistenze e le biografie: l’azienda e l’ideologia aziendale come un Leviatano, le cui possenti e lunghe braccia erano in grado di dispensare servizi e maneggiare con cura il tempo libero dei sudditi, dall’asilo per i figli degli operai, alle punizioni (i peggiori finivano nell’acquario del Mega Direttore Galattico), fino ai premi annuali, le uscite di gruppo, le partitelle tra colleghi e i viaggi (mal) organizzati.

Villaggio ha raccontato la realtà con astuzia, lucidità e lungimiranza tipica del filosofo e lo stile dei grandi artisti. Rigettava il mondo come Carmelo Bene, ma non aveva dietro di sé una schiera di soldati dell’intellighenzia (seppur alternativa) ad appoggiarlo. Fantozzi era per tutti e di tutti.

Era pop, con stile ed intelligenza. La sua forza dei racconti di Villaggio era quella di smascherare non solo il mondo dei dominanti, ma anche – e soprattutto – quello dei dominati: nella messa in scena coraggiosa ed unica dei miti della seconda metà del XX secolo, governati da omuncoli senza arte ne parte, uomini “grigi e inesistenti” per dirla alla Bene, e delle organizzazioni operaiste all’interno degli stabilimenti-mondo (nei quali una “Peroni famigliare” ed una partita in tv erano intesi come peccato), in quella messa in scena c’era innanzitutto una feroce critica ad una sinistra funzionale al sistema, adagiata sulla comoda e rassicurante semplificazione di un mondo per forza di cose dicotomico.

La sua debolezza era quella di sembrare un mero comico (oggi invece, sul fronte sempre genovese, certi comici hanno ricevuto tutto d’un colpo una botta di credibilità. Tempi strani, i nostri) e quella di parlare ostinatamente un linguaggio che fosse per tutti.

Villaggio ci abbandona nel bel mezzo di quella che sempre gli stessi sociologi definiscono “modernità riflessiva”, reflusso della prima, della quale restano soltanto gli scheletri degli stabilimenti e le storie di chi ha avuto la forza – e la fortuna – di sopravvivervi. Ci abbandona ad una classe politica che somiglia da una parte al Prof. Guidobaldo Maria Riccardelli – organizzatore del cineforum – e dall’altra a Fantozzi, senza saperlo. Senza aver colto il senso di quell’opera e la provocazione degli atti situazionisti di Villaggio (come quando si presentò alle elezioni nelle liste di DP o quando, già caduto in disgrazia a livello finanziario e artistico, fece la battuta sui sardi e le pecore). Una classe politica che però manca della improvvisa sensibilità e della bontà di cui era capace il ragioniere più famoso d’Italia, dolce e goffo come solo i migliori sanno essere. Ci abbandona nel bel mezzo di un passaggio storico e sociale fondamentale, in cui anni di moralismo ed incapacità ci hanno portato ad albergare le nostre speranze nella massima autorità cattolica (i preti si sa, lo diceva Weber, hanno meno difficoltà rispetto ai politici ad essere credibili, dal momento in cui devono rendere conto soltanto alla propria coscienza e non alla realtà, alla coscienza e al mondo, compito ben più arduo che spetta al politico) paradosso del nostro tempo; in cui a finire nell’acquario del Mega Direttore Galattico della Megaditta ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica, il Duca Conte Balabam, sono i giovani laureati con le loro speranze, le capacità, la voglia di emergere e tutta la vita che hanno davanti.

I giovani ricercatori ed il loro talento. Le seconde generazioni di migranti, le cui identità sono appese ad un filo. Gli outsider, schiacciati dalla morsa di un mondo che corre a troppe velocità.

Di quelle fabbriche e di quel mondo non resta nulla, se non il rimpianto di averne ereditato uno persino peggiore. Resta il racconto dei nostri genitori, che “un tempo si stava certamente meglio”. Restano le ricette dei politici sedicenti di sinistra, tragicamente scadute il 9 novembre 1989, ma soprattutto la voce di chi quel mondo lo aveva capito, conosciuto, vissuto e schiaffeggiato. Perciò nei film di Fantozzi possiamo riconoscere l’imprescindibile arrivismo dei colleghi, il servilismo dei carrieristi, la goffaggine degli impiegati che puntuali ogni inizio agosto colonizzano i voli charter e i villaggi turistici, alcuni dei quali muoiono per il troppo cibo ingerito nei banchetti all inclusive, la furbizia degli assenteisti, la cattiveria piccolo-borghese, la debolezza di certe battaglie sociali organizzate dall’alto e l’asfissia provocata da un sistema fondato sulla mera attività produttiva.

Così mentre scrivo mi immagino la notte in cui nacque Il fannullone, canzone scritta insieme all’amico di sempre Fabrizio De Andrè (il quale deve proprio al coinquilino il soprannome Faber), i vecchi Carrugi di Genova ed il volto del personaggio che ispirò Villaggio, autore del testo: Non si risenta la gente per bene se non mi adatto a portar le catene. Ti diedero lavoro in un grande ristorante a lavare gli avanzi della gente elegante, ma tu dicevi “il cielo è la mia unica fortuna e l’acqua dei piatti non rispecchia la luna”. E non posso fare a meno di pensare che le costanti antropologiche, più che sistemiche, svelate dalle opere di Villaggio hanno il peso di un manuale di filosofia sociale e politica e andrebbero studiate alle scuole dell’obbligo, se solo si potesse preparare gli insegnanti a non offendersi per la somiglianza con certi protagonisti. Se solo ci fossimo lasciati alle spalle quel mondo. Se solo sapessimo ridere un po’ più di noi stessi, a godere di una Peroni famigliare davanti ad una partita di calcio nonostante le storture del mondo e ad ammettere che siamo tutti un po’ Fantozzi, un po’ Filini e un po’ Calboni. Ma per farlo ci toccherà andare indietro nel tempo, sempre di più, fino a che la vecchia pellicola ingiallita e priva di effetti speciali ci assolverà dalle colpe e ci eviterà il rischio di vergognarci; così ci rimarrà soltanto il ricordo di un grande artista che aveva capito il mondo. Forse, a quel punto e come sempre in ritardo, ce ne accorgeremo di come era umano lui. Forse.