Qatar: tutti gli interessi dietro l’accusa di “terrorismo”

La crisi politica e gli interessi dietro la stretta contro Doha

di Alice Martini*, tratto da ISPI

L’attuale crisi dei paesi del Golfo, centrata sulla rottura tra Qatar, Arabia Saudita e altri paesi arabi, ci ricorda quanto questi siano importanti per le economie occidentali, ma anche quanto il Medio Oriente continui ad essere uno scenario geopolitico estremamente complicato, caratterizzato da un complesso sistema di alleanze e ostilità giustificate e legittimate generalmente dalle linee divisorie dell’Islam tra sunniti e sciiti, ma basate su interessi materiali, politici ed economici precisi.

In questo precario equilibrio, il Qatar, negli ultimi anni (ma forse sarebbe più appropriato parlare dell’ultimo paio di decenni), ha condotto un gioco libero e, approfittando anche di un interesse militare statunitense per la sua posizione privilegiata centrale alla regione, ha cercato di liberarsi del giogo saudita e di raggiungere una proiezione regionale più forte e una presenza internazionale autonoma.

Doha, dimostrando la profonda frammentazione dell’Islam sunnita wahhabita, si è avvicinata al nemico per eccellenza dei sauditi, l’Iran sciita, con cui ha intensi legami economici.

Inoltre, il governo qatariota è intervenuto nei vari scenari regionali dando appoggio agli Houthi yemeniti, sciiti filo-iraniani, e ai Fratelli Musulmani, organizzazione islamista politica dichiarata però illegale e terroristica da paesi come Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Siria ed Emirati Arabi Uniti per la destabilizzazione dei governi di questi paesi che una presenza politica più solida del movimento islamista potrebbe determinare.

Il passaggio di Trump in Arabia Saudita e la richiesta a Riyadh di guidare la lotta al “terrorismo e agli estremismi” ha evidenziato non solo quanto i sauditi siano ancora considerati dagli USA un alleato strategico, ma anche quanto per entrambi i soci sia importante contenere i paesi della mezzaluna sciita (Iraq, Siria, il Libano di Hezbollah e soprattutto l’Iran), necessità ancora più impellente in un momento in cui si inizia ad intravedere la liberazione di Mosul e Raqqa dai miliziani dello Stato Islamico (IS).

Forte di questa ritrovata centralità, l’Arabia Saudita ha immediatamente lanciato un attacco al Qatar.

Strategia che però ha più a che vedere con l’attuale evoluzione del conflitto siriano e con una politica di contenimento dell’Iran. I sauditi, e alcuni dei loro alleati, hanno così accusato Doha di fomentare il “terrorismo di al-Qaida, ISIS e Fratelli Musulmani”, in un j’accuse non affatto nuovo nel panorama internazionale, ma soprattutto ricorrente nella regione. Un gesto che, nel nome della sicurezza nazionale e della lotta all’estremismo, ha permesso a questi stati di prendere misure molto restrittive nei confronti del Qatar, tra cui la rottura di tutte le relazioni diplomatiche, la chiusura di tutte le frontiere con il paese e l’espulsione dei cittadini qatarioti dal loro territorio.

Più che l’accusa, molto grave, di finanziamento di gruppi terroristici, sorprende che a muoverla sia proprio l’Arabia Saudita, paese dichiarato da molti attori della comunità internazionale colpevole dello stesso crimine (e, in passato, dallo stesso Trump quando ancora candidato alla presidenza).

Effettivamente i qatarioti sembrerebbero non essere gli unici a finanziare milizie e gruppi proxy nei conflitti regionali, un fatto che evidenzia quanto, a volte, le accuse di “terrorismo” o di “finanziare il terrorismo” possano avere un uso più strumentale e politico che analitico, e servano a sostenere una retorica che giustifichi il casus belli e che apra la strada a possibili interventi futuri, diplomatici o militari.

In un contesto in cui tutti gli attori sembrerebbero avere le stesse colpe, l’associazione con il terrorismo internazionale di IS e al-Qaida serve quindi più a debilitare, screditare, moralizzare e magari anche demonizzare gli avversari e a metterli sotto i riflettori della comunità internazionale, siano questi oppositori il Qatar, l’Iran o i Fratelli Musulmani.

La partita geopolitica del Medio Oriente si sta quindi giocando non solo in termini bellici su scenari come quello siriano e quello yemenita, ma anche a livelli diplomatici e retorici, dove effettivamente più che il fenomeno a cui generalmente si riferisce, è il termine stesso “terrorismo” a essere usato come arma politica in quello che è un complesso intreccio di accuse e denigrazioni tra i diversi attori locali, regionali ed internazionali.

Questa strumentalizzazione del termine non è certamente nuova. È sufficiente ricordare l’esempio eclatante di quando Saddam Hussein fu accusato di finanziare il terrorismo internazionale per giustificare e legittimare l’intervento in Iraq. Allo stesso modo, l’uso politico del termine si è palesato in modo significativo anche nelle ultime settimane: laddove Washington e Riyadh colpevolizzano Teheran (e, nel caso saudita, anche Doha) di terrorismo, l’Iran rilancia le accuse proprio all’Arabia Saudita. Caso ancora più eclatante è quello del conflitto siriano dove, quasi paradossalmente, tutti gli attori regionali e internazionali si sono reciprocamente accusati o di terrorismo o di finanziarlo.

In questo contesto, il risultato di queste “guerre di parole” e delle conseguenze dell’uso strumentale del termine è emerso chiaramente nelle difficoltà di instaurare i processi di pace perché “come si fa a negoziare con dei terroristi (o con chi li finanza)”?

È quindi in questo complicato equilibrio geopolitico che vanno lette le accuse di appoggio al terrorismo internazionale dell’Arabia Saudita verso il Qatar e l’Iran. Incriminazioni ben mirate che non solo cercano di mettere fuori gioco una volta per tutte i Fratelli Musulmani, associandoli strettamente a IS o ad al-Qaida, ma anche a ergere, agli occhi della comunità internazionale, un fronte moderato saudita, appoggiato dagli Stati Uniti, contro uno islamista filo-iraniano che finanzia il terrorismo internazionale. Una divisione mirata a demonizzare l’Iran e ad obbligare il Qatar a decidere da che parte stare.

*Alice Martini, dottoranda presso la Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna, Pisa