San Calò

Il Santo nero di Agrigento

di Tano Siracusa

San Calò giungeva in Sicilia probabilmente dalla costa tunisina alla fine del V secolo, in fuga dai Vandali seguaci dell’eresia ariana.

Millecinquecento anni fa si poteva. Qualche anno fa durante l’omelia domenicale l’arcivescovo di Agrigento, don Franco Montenegro, poi nominato cardinale da papa Francesco, ha detto che con le leggi in vigore nel nostro paese San Calò non sarebbe sbarcato. Erano i tempi della Bossi-Fini.

Oggi sono nel mirino le ong che soccorrono i migranti in fuga.

Il patrono di Agrigento è san Grelando, vescovo normanno, che romanizzò (e normalizzò) una chiesa prima bizantina poi isolata dalla dominazione araba. L’algido vescovo francese non ha mai goduto però di grande seguito.

E’ il patrono ufficiale. Quello effettivo, il santo prediletto dagli agrigentini, dal popolo che un tempo era prevalentemente di contadini e artigiani, è san Calò, il santo nero, i cui festeggiamenti la chiesa locale ha sempre subìto come uno sproposito.

Anni fa vennero apparecchiati degli altoparlanti lungo il percorso della processione. E mentre fra le urla dei portatori e dei fedeli rullavano i tamburi o incalzava la banda, si alzavano al cielo mesti canti di chiesa. A volte il rosario.

Era un vero e proprio sabotaggio da parte delle autorità ecclesiastiche della sonorità e musicalità della processione, drammatica, tellurica e festosa, dei suoi tempi, del suo ritmo. Ci fu un gran mugugnare per quelle interferenze sonore e qualche articolo di protesta. Da sempre la chiesa ufficiale, quella di san Gerlando, cerca di normalizzare quest’ultimo residuo di eccentricità bizantina, di eterodossia popolare.

Poi gli altoparlanti sono spariti, e ogni tanto il tumulto sembra comporsi in una straniante armonia, e quei tonfi, quelle bolle di silenzio attraversano la processione del Santo Nero come per una interna compressione, senza interferenze esterne.

Ma la colonna sonora della processione è quella della banda e dei tamburi, attraversata dalle voci, dalle invocazioni, dalle grida di richiamo nel tumulto della folla.

I tamburi sono uno strumento importante, nobile: hanno a che fare con la pelle dell’animale ucciso, con un passato remoto, quando la percussione dei tamburi era legata alle danze, ai rituali, all’oltrepassamento della soglia, al sacrificio. Il ritmo della Diana, la tammurriata di san Calò, è un ritmo da taranta, anche se qui gli unici ad accennare movenze di danza sono i bravissimi suonatori che si alternano al centro del cerchio, ciascuno con un suo stile.

C’è naturalmente molto Mediterraneo e quindi molta Africa nelle percussioni che accompagnano la processione del Santo Nero, che da tempo viene sentito ormai da molti come il santo dei neri, assai numerosi nella città dei templi e dei tolli, gli enormi palazzi tirati su nel secondo dopoguerra.

Loro, gli immigrati, i neri, osservano la processione che passa per le strette vie del centro storico, dove abitano. Osservano stupiti, a volte incuriositi o divertiti la baraonda orchestrata da quella statua nera che ondeggia e sbanda come un ubriaco, che travolge e cancella per un giorno ordine, gerarchie, disciplina. Qualcuno la segue.