Una rubrica sui destini letterari
di Isidora Tesic
Vi sono libri che si leggono per atto di cura, verso se stessi. Altri che domandano un tempo senza
pentimenti. Ci raccontano, ci interrogano, senza attesa di risposte, perché il dubbio è passo primo in
libertà. Ci innamorano o ci abbandonano, perché il sentimento viene insegnato.
‘Battiti per minuto’ si propone, in una serie di racconti, d’essere la misura narrata dell’intensità di
vita dei personaggi dei libri richiamati al contemporaneo.
Marquez diceva che per ciascun uomo esistono tre vite, una pubblica, una privata ed una segreta. Ed
è in quella segreta, che incontriamo, per un attimo o senza tempo, i personaggi. Anche in storie
vere. Perché la vita, infine, abbraccia la letteratura
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Io non so quanti. Quanti fiori, quanti neri vestiti. Quante notti ancora.
Io non so quanto tristi siano rimaste le nuvole e il suolo, triste. Tristi persino gli uccelli sui rami. Non
so consolarli. Ma non piangono. E neanche io.
La tua mancanza è diventata siccità scura. Definitiva come una piaga.
L’ho poggiato vicino alla finestra, lontano da me, quello che mi hai lasciato.
Quando me l’avevano portato, i tuoi, erano rimasti sulla soglia. Non entrano due dolori in una stanza
sola. Non abbiamo pronunciato il tuo nome.
Continuo a guardarlo. Senza il coraggio di aprirlo. C’è ancora il volo della tua mano, sopra. Riesco a
vederlo. So cosa c’è scritto, sulla prima pagina: «Anna K. credeva in vasti amori, uno per vita. E rosso lo
voleva, cavo, come mano in carezza. Tendini e cellule esposte, ossigeno per il suo fiato…»
Io so. Lo so.
So ogni cosa, persino quello che non mi hai detto. Persino quello che non sai ti è mancato. So ogni
cosa. Persino quello che avviene postumo. E che ti è stato risparmiato. Forse perché non mente, la morte,
a quelli che restano. L’assenza sottrae il riserbo su chi è stato pianto.
Era sabato, me lo ricordo.
Era sempre sabato, quando chiamavi. Tre squilli puntuali, alle nove di mattina. Ti eri trasferita da un
anno. Forse due. Dresda – Praga, lunghi, dolenti, i fili per sentire la tua voce.
Non me lo avevi detto subito. Avevi parlato della nuova vita, del teatro. Del tuo nuovo spettacolo. Era
sempre Anna K. che volevi mettere in scena.
Avevi domandato di me. Non avevo molte notizie. Qualche giorno felice, qualche pentimento giunto
in ritardo. Nulla di nuovo.
Poi mi avevi parlato di Dresda: «Mentre camminiamo per Dresda», avevi detto, «ci sembra di
calpestare cicatrici. Bisogna stare attenti a non poggiare i piedi sul dolore lasciato in crepe invisibili, per
terra. Una stratificazione di crepe. Il tempo sembra essere contato a partire dal bombardamento più
vicino…»
Mi ricordo ancora adesso. Mi ricordo così bene, perché avevi parlato al plurale.
Solo alla fine, salutandomi, mi avevi lasciato un nome: Jan… Jan, torrente acuto, Jan, sibilo della tua
ferita aperta sul cuore. Jan amore, tutto amore. Vasto tuo amore. Jan, tutto quello che ora resta.
Oggi c’è un vento luminoso. Ed io non perdono questa luce che avanza. Proprio oggi il cielo detona e
si sversa. Ma nessuna ombra viene da te. Solo una pena, scheletro al sole, che mi trascino senza sosta.
Lo vedono per le vie?
Mio dolore orfano e mendicante, gettato in un angolo di me. Fermo e sanguinante, mi guarda con i
tuoi occhi. Sono belli, ancora.
Solo la Moldava scorre, oggi.
Tutto il resto aspetta. Che tu te ne vada di un altro passo. Più lungo, questa volta, ti prego, dell’anno
passato. Perché il tuo ricordo soffre di nostalgia. E torna sempre indietro. Cerchiamo di fare del dolore
un’abitudine. Se è cronico è sopportabile, questa l’illusione.
Ma tu non ti liberi. E non liberi neppure me.
Cammino. Continuo a camminare, senza tregua.
Quanti anni sono passati. Nessuno ne hai reclamato da Jan. Tutti tuoi, tutti in cessione ad uso dei suoi
occhi di ferro freddo. Venti anni, di un plurale a due. Due soltanto, nessuna eccezione. Questa era la sua
regola.
Se chiudo gli occhi, vedo ancora il tuo sorriso, mentre mi mostri la fotografia che porti sempre con te.
Jan bambino. L’unico figlio concesso. Non sai quanto eri triste. Avrei dovuto dirtelo.
Forse è stata nostra, la colpa. Ti abbiamo chiamata Anna K., ricordi? Perché i nostri amori erano due,
tre, piante veloci. Non come il tuo. Ma battezzandoti così, forse, ti abbiamo destinato la rispettiva fine.
Morta d’estenuato amore.
I giornali avevano solo scritto: «Muore in scena la grande regista».
Avrebbero dovuto dire che era la replica di Anna K. E che ti eri portata le mani al petto per
ringraziare. E che lì erano rimaste, per un tempo troppo lungo, stringendosi contro la pelle.
Avrebbero dovuto dire del silenzio spaventoso, nel quale eri caduta. Da cui nessuno era più riuscito a
rialzarti.
Infarto, è stata la diagnosi tardiva. Io so, invece. La verità è che non c’era più null’altro da toglierti.
Non avevi più nulla a cui rinunciare, per amore suo.
Cammino.
Dieci, venti. Questa è la misura. Questa la conta degli anni. Ancora mi devono passare, di parte in
parte, per poterti assolvere la mancanza. Ma ne sono trascorsi soltanto tre… proprio oggi. Ed è sabato.
E io, oggi, alle nove, non voglio rispondere, a te che non puoi chiamare. Non stanno tesi i fili, lì, dove
tu stai. E non tira nessun vento. Nessuna voce suona, lì, verso dove tu vai.
Non voglio attraversare la piazza per venirti a trovare. Sotto questo cielo di marmo, tra tutti in piedi,
non voglio averti lontana. Tra noi, sepolture verticali, per la tua piana, non ho forza di stare.
Eppure sto. Adesso, davanti a te, tra tutti gli altri. Anche Jan.
Lui mi si avvicina. Mi mostra la fotografia di un bambino. Non ha i tuoi occhi, nulla di tuo. Ed io non
voglio contarli. Il tuo tempo, con te, si è fermato. Non voglio contarli, gli anni che ha. La tua morte è più
vecchia. Più vecchia deve essere. E più vecchio ancora il tuo amore ustionato. Non voglio postume offese.
I suoi anni, non li voglio contare.
Suo figlio. Jan mi guarda e piange. Ma non ha più nulla di tuo, sul viso.