L’ultimo libro di Rosa Mordenti sulla sua famiglia e la Resistenza
di Andrea Cardoni
Ci ha messo cinquantuno righe, Rosa Mordenti, per scrivere quello che sa di suo nonno, Renato Mordenti, e di sua nonna, Maria Luisa.
Ha scritto che suo nonno è nato a Cesena nel 1921, che nel ‘41 è stato mandato a combattere in Jugoslavia e che lì ha visto i fascisti torturare un partigiano, che poi ha preso parte alla Resistenza romana e che fino al ‘45 è stato segretario della sezione del Pci Ponte-Regola (dedicata a Guido Rattoppatore, partigiano morto a Forte Bravetta nel ’44), che in quella sezione ha conosciuto Maria Luisa che era ebrea e veniva da una famiglia benestante, che si sono trasferiti poi a Milano, che dopo la Liberazione hanno fatto sparire le armi buttandole nel Tevere da Ponte Sant’Angelo, che poi hanno fatto due figli, che nel ‘47 Renato è tornato a Roma per lavorare all’Unità, che poi però nel ‘50 Renato e Maria Luisa si sono divisi, che nel ‘51 Renato ha partecipato come attore al film Roma ore 11 diretto da Giuseppe De Santis e che Renato, nel 1952, quando aveva trent’anni, è morto un giorno d’aprile per mano di Maria Luisa che gli ha sparato sul pianerottolo della casa dei genitori, “a pochi passi dalla sezione in cui si erano conosciuti”. E questo è il riassunto di quelle cinquantuno righe. Il resto è il racconto di una storia «indicibile», e non si può riassumere.
Il resto è indicibile e fa subito strano che una metà dell’indicibile siano le tracce di un giornalista. Indicibile perché di Renato Mordenti, giornalista che scriveva di sport sull’Unità, non si può dire niente perché l’Unità aveva un archivio che raccoglieva 93 anni di storia del giornale (dal 12 febbraio 1924), era stato digitalizzato ed era consultabile gratuitamente online fino a poco tempo fa.
Poi è stato sottratto alla consultazione a causa, dicono, dei “server obsoleti”. Rosa Mordenti però un po’ di quello che ha scritto suo nonno lo mette nel libro: era uno che conosceva a memoria la formazione della Roma del 1928 e l’elenco degli unici brasiliani della Lazio, che intervistò la locomotiva umana Zàtopek.
Avrei voluto sapere e leggere altro delle cose che aveva scritto e Rosa mi ha girato un paio di altri articoli ed è stato bello leggere che Renato Mordenti scrivesse di un derby juniores Roma-Lazio finito 2 a 1, con gol di Lucchi (Lazio), e doppietta di Marra (Roma).
Lo intitolò “Uno spettacolo piacevolissimo”, con 8000 persone che “hanno visto due squadre in gamba” e chissà cosa avrebbe scritto oggi sull’Unità, magari qualcosa sul calcio popolare, sui Mondiali antirazzisti o sui Liberi Nantes.
Nell’altro articolo che mi ha mandato Rosa Mordenti, suo nonno racconta il calcio in Unione Sovietica attraverso un’intervista a Serghei Savin: “Alla Coppa dei Sindacati hanno preso parte l’anno scorso oltre 4mila società, 8mila squadre”, scrive. “Come i nostri lettori già sanno nessuna forma di sport è improntata nell’URSS su basi professionistiche e Savin non ha avuto difficoltà a dimostrarlo ricordando che uno sportivo guadagna in proporzione al lavoro che svolge. È sempre il lavoro che determina il salario o lo stipendio di un atleta, che naturalmente ottiene dalla fabbrica o dall’ufficio dei permessi speciali allorquando la sua società effettua una trasferta molto lunga, mentre gli allenamenti si svolgono nelle ore non lavorative”. Questo articolo viene pubblicato il 15 marzo 1952. Pochi giorni dopo la nonna di Rosa spara al nonno di Rosa.
«Fu dura la ricostruzione» mi ha detto una volta durante un’intervista Garibaldo Benifei, partigiano anche lui. Quel dura mi è tornato in mente leggendo l’indicibile del libro di Rosa Mordenti perché mentre Garibaldo pronunciava quella parola, quattro anni fa, con l’Unità ancora sul comodino, non avevo pensato a quella che nel libro viene raccontata come la normalizzazione politica e sociale, nata con la sconfitta del fronte popolare alle elezioni, “il cui prezzo inizia sempre dal ritorno nelle case delle donne” e “quel prezzo è parte di questa storia che è soprattutto la storia di una resa e delle sue conseguenze”.
E la durezza della ricostruzione adesso, con la storia dei nonni di Rosa Mordenti, con la ricostruzione del processo alla nonna, forse ha preso ancora più spazio con un senso che ne ha allargato il perimetro.
Il resto, l’indicibile, non si può riassumere, ma almeno per me l’ho trovato in una frase di Orhan Pamuk (e che mi ha suggerito una mia amica che si chiama Cinzia) in un libro che si chiama La valigia di mio padre, quando dice che per lui scrivere è «scavare un pozzo con un ago».
Nel resto del libro c’è un pozzo profondo scavato non solo a Roma, nel “centro di una città antichissima”, ma è un pozzo profondo di casa sua, dove vengono cucite o, come scrive Alessandro Portelli nell’introduzione, “rappezzate”, fotografie e articoli di giornale, memoria collettiva e una ricerca di senso recondita, frammenti di cinema e una lettera al nonno, la sentenza sull’omicidio e le obiezioni sulla sua ricerca (“E lasciala in pace questa storia… Non sono tue le ferite”), una storia di tutti e una storia sua sua e solo sua di Rosa Mordenti che è fatta degli zigomi alti e dei dentoni che la fanno somigliare a chi viene da quel pozzo.
Sul resto non ci sono punti di sutura, tutto resta aperto e le maglie del pozzo forse fanno entrare anche fin troppa acqua per chi ha letto e che adesso sta tentando di scriverne. Tanto che adesso la domanda è: chi sono io per mettere in naso in questo pozzo?