di Alice Facchini
Questa è una storia piccola, che però è inserita all’interno di una storia più grande. È la storia di Franco, un uomo, un comunista, un sindacalista appassionato che ha preso parte (seppur una minuscola parte) alle lotte per i diritti dei lavoratori e alla guerra fredda. Questa è la storia di mio nonno.
Ancora prima di iniziare a raccontarmi di lui, mia nonna si alza e va a cercare l’album di famiglia con le sue foto. Senza queste non si può cominciare. Apre una vecchia anta di legno ed estrae un volume massiccio, dalla copertina di pelle nera.
Dentro c’è la storia di Franco, ma anche la Storia con la S maiuscola. Fin dalla prima pagina comincia un viaggio nel tempo, dal periodo fascista fino agli anni ’70, e nello spazio, attraverso un’antica Bologna, e poi Roma, Torino, Palermo, ma anche la Germania Est e l’URSS, nel cuore del comunismo.
Mio nonno è nato nel 1925 a Bologna ed è cresciuto con i suoi sette fratelli intorno alla segheria di famiglia della Beverara, una zona al tempo periferica, in aperta campagna, oggi adiacente alla tangenziale e a una serie di grandi supermercati.
Quando aveva 14 anni è scoppiata la guerra, a 17 ha imbracciato le armi ed “è andato sui monti”, come si diceva a Bologna per descrivere qualcuno che lasciava la vita civile e diventava partigiano.
Ed ecco una foto di lui con il berretto da Che Guevara insieme ai suoi compagni della brigata comunista a cui si era unito. Era bassettino ma niente affatto gracile. Come nome di battaglia gli avevano messo Commosso, perché tutte le volte che si presentava stringeva la mano dicendo “commosso” anziché “piacere”. Commosso era giovanissimo ma aveva imparato a usare la pistola: “Non sappiamo se ha mai sparato in tempo di guerra, di queste cose non si parlava”, racconta mia nonna.
Sfogliando le pesanti pagine dell’album, le fotografie scricchiolano con il muoversi della carta. Passano gli anni e Franco inizia a militare come sindacalista alla Camera del lavoro e a frequentare assiduamente la vecchia sede del PCI di via Barberia, in pienissimo centro storico.
Poi conosce mia nonna, si innamorano e si sposano, rigorosamente in Comune: “Figurati se un comunista si sposava in chiesa! C’erano delle regole inderogabili a quei tempi”.
Continuando a viaggiare tra le foto – e nel tempo – arriviamo al 1958, anno importante: Franco decide di frequentare la Scuola di partito. “Era una cosa molto impegnativa, tuo nonno stava là sei giorni su sette e tornava a casa solo il sabato – racconta la nonna –. Io ero quasi sempre da sola, era nato il nostro primo figlio ma comunque lui aveva deciso di continuare. Mangiava là, dormiva là, non aveva sosta. Gli facevano studiare Marx, la storia del partito, la nascita dell’URSS… A quei tempi era normale, a Bologna ci andavano in tanti”.
Franco è appassionato, crede in quello che fa più di ogni altra cosa. I suoi discorsi accendono le folle così fa carriera nel sindacato e diventa segretario nazionale della categoria autoferrotranvieri. C’è una foto di lui, mia nonna e altri amici tutti in posa di fianco a Togliatti: “Eravamo andati a trovarlo mentre lui era in vacanza in montagna. Volevamo conoscerlo, così l’abbiamo chiamato e siamo partiti. È stato emozionante quando siamo arrivati, abbiamo voluto immortalare il momento con quella foto”.
La mano di Franco ha stretto quella di Togliatti e di chissà quali altri personaggi che hanno scritto la nostra storia. Era un uomo piccolo, che però amava ballare con i giganti.
Grazie al suo lavoro ha avuto l’occasione – rarissima a quei tempi – di viaggiare e di scoprire Paesi altrimenti impenetrabili. Ecco una foto scattata nel mezzo della folla, dove si distinguono tante bandiere (la foto è in bianco e nero ma si può immaginare fossero rosse) e un cartellone con la scritta “Der Kommunismus siegt”, cioè “il comunismo trionfa”. Era il 1961, Franco si trovava a Berlino e stava assistendo con i suoi occhi alla costruzione del muro.
Quando le chiedo di raccontarmi di più, la nonna non sa cosa rispondere: “Quei viaggi erano altamente riservati, spesso Franco attraversava la frontiera in incognito e quando tornava non poteva parlare di quello che aveva fatto. Questo era il protocollo. Mi ricordo che aveva scritto un diario di bordo della sua visita nella Germania dell’est, ma dopo che è morto non l’ho mai più trovato. Chissà, magari l’aveva portato in ufficio e forse qualcuno l’ha fatto sparire”.
Arrivano poi le foto del 1966 a Mosca, che lo ritraggono tutto sorridente e orgoglioso davanti a un’imponente edificio dall’architettura sovietica: “Andava spesso in Unione Sovietica e ci stava per parecchio tempo – racconta la nonna –. Doveva visitare le fabbriche, incontrare i dirigenti del partito e dei sindacati… voleva capire bene come funzionava il tutto. Era un perfezionista, voleva essere sempre all’avanguardia”.
Chiudiamo l’album, la nonna è un po’ stanca. In quelle foto sono racchiusi 40 anni di storia, la storia privata e pubblica di suo marito, ma anche la Storia di tutti noi. Riviverli tutti in una volta è impegnativo, per oggi basta così, riponiamo il librone nello scaffale. Prima di andarmene però la mia attenzione viene catturata da un’altra foto, l’ultima, questa volta incorniciata e appesa sopra al letto della camera matrimoniale.
Franco è in giacca e cravatta con la fronte corrugata, la bocca semiaperta e gli occhi vispi. Sta parlando al microfono e guarda dritto davanti a sé. Non appare inibito, anzi sembra pronto a fare qualsiasi cosa per ottenere quello che vuole.
Chi ci fosse lì ad ascoltarlo non ci è dato sapere. Magari erano in pochi, una riunione organizzativa del direttivo del sindacato, oppure forse c’era una moltitudine di persone, forse i suoi occhi si stavano perdendo tra le teste e le bandiere rosse svolazzanti. Chissà cosa stava dicendo, quale causa stava difendendo in quel momento e qual era il pezzo di mondo che si era messo in testa di cambiare.