di Giusi Affronti
“L’insularità, voglio dire, non è una segregazione solo geografica, ma se ne porta dietro altre: della provincia, della famiglia, della stanza, del proprio cuore”, così il siciliano Gesualdo Bufalino.
Eppure a Filicudi ci si saluta tutti, isolani e viaggiatori. Basta incrociare uno sguardo, lungo i sentieri di ciottoli che guardano il mare. Quinta isola in ordine di grandezza dell’arcipelago delle Eolie, in Sicilia. Un’isola nell’isola, insomma.
È il mare continuamente sotto il naso a generare questo sentimento collettivo di accoglienza, di fiducia. Lasciare le finestre aperte prima di uscire senza blindare la porta è un istinto genuino. L’unico spazio che non si perde d’occhio è l’orizzonte, magari strizzando forte gli occhi a mezzogiorno per discernere le silhouette delle altre isole sorelle. Perché alle Eolie è stata data una bellezza “femmina” nonostante l’orografia insegni la loro origine vulcanica. Di vulcani spenti, a Filicudi, ne esistono otto. Il Monte Fossa Felci che la domina lo era. La Canna, ritta contro il cielo nel Mar Tirreno, è un faraglione colonnare figlio dell’ultimo prorompere eruttivo, datato circa 40.000 anni fa.
Un’unica strada asfaltata percorre il corpo dell’isola e la selvaggia del suo paesaggio: il Porto da un lato e Pecorini Mare dall’altro. Il tempo si discioglie liquido e per questo finisci a mangiare spaghetti alle mandorle alle cinque del pomeriggio. Magari insieme a una malvasia fredda.
L’aria di mare odora di menta selvatica, timo e capperi. I capperi, per esempio, li mangi dappertutto: nel pane cunzato, nell’insalata di patate lesse, cipolle rosse e pomodori, nel ripieno dei calamaretti. Fosse per i filicudani, li aggiungerebbero alla granita di fichi d’india e nell’espresso.
Nelle isole, la verità sta in bocca ai suoi abitanti e in quella degli uomini di mare. Si vive, dimessi, in balia del vento a Filicudi. Senza che il vento voglia, non è concesso muoversi, né attraccare né salpare.