Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.
di Francesca Rolandi
Svetla fece di tutto per imbarcarsi su quella crociera. Era un tour del Mediterraneo che faceva scalo in Jugoslavia e poi a Venezia, poi chissà dove, Svetla non se lo ricorda più. Non se lo ricorda perché le altre tappe non erano più importanti e lei non ci sarebbe stata.
A bordo c’erano turisti bulgari, classe media, persone vicine al partito, che avrebbero ricevuto un premio per la loro fedeltà. Vedere l’Occidente e nel frattempo mostrare all’Occidente che il blocco sovietico non era una prigione ma che se ne poteva uscire per viaggiare all’estero. Erano gli anni ‘70 e la Bulgaria lasciava intravedere qualche spiraglio.
Il profilo dei viaggiatori era stato attentamente vagliato: nessuno in odore di dissidenza, nessuno che avesse dei parenti all’estero da raggiungere. Perché il problema con i viaggi all’estero dal blocco sovietico era quello.
All’appello finale mancava sempre qualcuno che se l’era squagliata cercando di raggiungere il mitico occidente. Una signorina in lacrime chiamava Sofia o Praga per comunicare i nomi degli scomparsi e spergiurare che no, non lo avevano lasciato intendere in nessun modo.
Svetla non era quel genere di persona. Non le mancava niente. Si era laureata in letteratura e aveva da poco iniziato a lavorare in un istituto. Veniva da una famiglia benestante, il padre medico, la buona società della Bulgaria socialista. Aveva un fidanzato, Georgi, che lavorava come assistente all’università. Ma sognava di scappare.
Lo sognava da alcuni anni. A 16 anni era stata a Parigi a trovare il padre che vi aveva trascorso alcuni mesi per una specializzazione. Parigi allora era una delle sedi degli esuli bulgari, ma loro non li frequentavano, anzi cercavano di starne alla larga perché sapevano che era tutto controllato.
L’onda lunga del ‘68 continuava e Svetla non aveva partecipato neppure a quello. Aveva però guardato le manifestazioni alla televisione nell’appartamentino del padre, sognando di perdersi in quella massa che inneggiava alla rivoluzione e al socialismo.
Lei che del socialismo aveva le scatole piene, fu inebriata da un odore di libertà. Sognò più volte di uscire di soppiatto e lasciarsi scivolare nella folla ma non lo fece mai. Torno a casa dopo una decina di giorni, conscia che quel viaggio non se lo sarebbe mai dimenticato.
Vi ripensò spesso negli anni, in particolare ogni volta che la sua vita le sembrava troppo stretta. E la sua vita le sembrava spesso troppo stretta, con i rituali politici ormai spogli, il conformismo dell’università, il controllo sulla vita privata, la sua famiglia e la sua idea di decoro.
La decisione maturò in fretta, poco dopo la laurea. Svetla pensò: è questo quello che vuoi? No. E allora è il momento di andarsene. Non pensava a una fuga, a dei passeur, non le passava neppure per la testa di mettersi in pericolo. E poi erano in pochissimi a farcela.
Pensava a un viaggio turistico che fosse un trampolino per la sua vita futura nel mondo libero.
La crociera nel Mediterraneo veniva ripetuta ogni anno. Svetla si mise in lista due volte ma non venne accettata. I posti erano limitati e la selezione dura. Ma Svetla sapeva di potercela fare, lei non sembrava una potenziale defector, una che prendeva lo slancio per spiccare il volo nel paradiso/inferno capitalista.
Era pacata, tranquilla e la sua frustrazione se l’era tenuta tutta dentro. Al terzo tentativo lei e Georgi ce la fecero. Quando comunicarono loro che erano stati accettati e che sarebbero partiti, furono entrambi presi dal panico. Una parte di loro pensava che fosse giusto tentare e poi lasciare la vita scegliere. Ma ora la vita aveva scelto così e si trovavano a decidere cosa mettere nella valigia per un viaggio che non si sapeva dove sarebbe finito.
Alla fine Svetla mise in valigia tutto il necessario per una crociera estiva di dieci giorni. “Non sarà un paio di mutande in più a cambiarmi la vita” pensò. E poi nulla era sicuro, non era sicuro che non sarebbe tornata.
Salutare i suoi genitori però fu straziante. Tratteneva le lacrime agli occhi e ripeteva le stesse cose che ripeteva ogni anno quando era in partenza per le vacanze sul Mar Nero. Per un momento incrociò gli occhi del padre e pensò di intravvedere un luccichio, che avesse intuito qualcosa. Quando la mattina dopo la accompagnò al taxi, lei notò improvvisamente i suoi capelli bianchi e quanto fosse invecchiato.
Tutto era stato pianificato con Georgi nei minimi particolari prima di partire e sulla nave non ci sarebbe stato bisogno di parlarne ancora. Non era convinta che Georgi fosse l’uomo della sua vita. Debole, vacillante, ma un ragazzo piacevole, affidabile.
Non era sicura fino in fondo che lui l’avrebbe seguita davvero ma sperava che non avrebbe affrontato da sola quella avventura così grande.
Guardavano fuori dall’oblò della nave per tutto il viaggio, quel Mediterraneo che non avevano mai visto. Ma il pensiero correva alle calli veneziane e a un articolo nel quale aveva letto che erano un labirinto.
Sbarcati a Venezia la seconda occasione fu quella buona. Un museo, il bagno, una corsa a per di fiato per le scale. “Georgi, muoviti, Dio santo!”. Una serie di emozioni che si fondevano tutte insieme alla mancanza di ossigeno perché continuavano a correre. Quando furono abbastanza lontani iniziarono a chiedere dove era la polizia.
“Scusi, scusi” fermava la gente Svetla “Où est la police?” chiedeva in francese. Una donna sorrise, rispose qualcosa che non capì. Si sentì squadrata e pensò che la donna rideva del loro abbigliamento, come se avessero avuto il marchio di oltre cortina. Non andò bene nemmeno con gli altri.
Quando uno studente indicò la stazione di polizia in un buon francese, Svetla e Georgi tirarono un sospiro di sollievo. Ma infine si persero tra il destra e sinistra, finirono in calli morte, si scontrarono con muri, si fecero prendere dal nervosismo.
Fu così che arrivarono alla stazione e a Svetla venne un’idea. Sapeva che i richiedenti asilo est europei finivano nel campo di Trieste per i primi screening. “Accelleriamo i tempi e andiamoci noi” pensò. Le lire che l’agenzia aveva fornito bastarono ancora per comprare due biglietti solo andata. Si tornava a est, ma per poco, per poi andare tutta a Ovest. Guardava Georgi e sorrideva pensando che anche lui alla fine aveva trovato il coraggio.
Svetla trascorse tre mesi al campo di Padriciano, sulle alture vicino a Basovizza. Era una struttura relativamente moderna, che era andata a sostituire lo spettrale campo di San Sabba. Iniziò però a provare ribrezzo per le camerate, per i bagni sporchi, per la promiscuità. Nel campo c’era un’umanità varia proveniente da tutta l’Europa orientale.
C’era la famiglia di un dentista di Praga, arrivata in auto sull’onda lunga delle vacanze, c’erano i contadini romeni che avevano attraversato il Danubio a nuoto e poi a piedi tutta la Jugoslavia.
Qui le giornate non passavano mai e dopo la concitazione dei primi giorni si accorse che non aveva pensato quasi mai al dopo. Dove andare una volta in Occidente. Lei avrebbe sognato Parigi, ma da Padriciano a Parigi non ci si arrivava. Doveva mettersi in lista per il ricollocamento. Frequentò il corso di inglese, imparò a giocare a scacchi.
Smise di uscire perché si accorse che fuori, fin dove poteva arrivare, non c’era nulla e che lei era solo una profuga. Cadde in depressione e passò una settimana senza lavarsi. Poi finalmente il suo turno arrivò. United States of America. Lei e Giorgi erano stati accettati.
Seguiva un trasferimento nel campo di Latina dove le ultime procedure sarebbero state ultimate prima dell’imbarco. Fu qui che un giorno venne presa in disparte da un’operatrice del campo che le chiese di seguirla nell’ufficio.
Svetla trasalì quando vide sua madre, il volto stanco nascosto dietro una maschera di fondo tinta, le mani tremanti. Era accompagnata da un uomo distinto, dell’ambasciata bulgara di Roma. L’uomo fumava in disparte e guardava terra, la madre le prese le mani.
“Torna a casa Svetla. Tutto tornerà come prima. Il compagno Kirov lo ha promesso a tuo padre. Devi solo tornare con me e dimentichiamo tutto”. Kirov alzava di tanto in tanto lo sguardo. Svetla iniziò a sudare. “Mamma non è possibile” disse, mentre cercava di capire perché non le venisse da piangere. “Non è più possibile tornare indietro”.
Si lasciarono sul piazzale polveroso davanti al campo, sullo sfondo le palme battute dal vento. Dopo avrebbe saputo che il suo caso non era unico. Era capitato ad altri figli di buone famiglie bulgare che i genitori fossero fatti arrivare in Italia per convincerli a cambiare idea.
Svetla e Giorgi arrivarono negli Stati Uniti nel dicembre del 1981. Regan era appena stato eletto e dovunque si parlava di guerra fredda. Ad aspettarli c’era un appartamentino, ma non il lavoro per lei. Svetla si accorse che di una laureata in letteratura bulgara l’America non sapeva bene che farsene.
Camminò avanti e indietro per il quartiere, ogni cosa intorno a lei attraeva nei primi giorni la sua curiosità nei primi giorni. Un’organizzazione religiosa li invitò a tenere una lezione sulla persecuzione delle chiese in Bulgaria. Partì lei con il suo inglese spedito, Georgi balbettò qualcosa. Alla fine fioccarono le domande.
Svetla provò con calma a spiegare che in Bulgaria c’erano le automobili sì, certo non tante come in America, c’erano i bagni. Loro non erano stati perseguitati direttamente ma cercavano una vita migliore. Si accorse che non la stavano ascoltando e che non riuscivano neppure a pronunciare il suo nome.
Con l’andare avanti dei mesi, Svetla trovò un lavoro come segretaria grazie alla sua conoscenza del russo e del francese. La distanza tra lei e Georgi si faceva sempre più grande. Erano diventati due persone diverse, lui sempre più chiuso, con quell’inglese zoppicante, sempre circondato di connazionali, che quasi non capiva nemmeno lei quando parlava inglese.
Lei che non voleva essere né immigrata né profuga e voleva integrarsi in una società che non le piaceva in tutto e per tutto ma nella quale ormai si trovava. A distanza di alcuni mesi andò a vivere con un collega americano che di lì a poco avrebbe sposato. Jim dimostrò da subito poco interesse per la sua vita precedente e accolse con favore la sua scelta di cambiare nome.
Svetla diventò Claire, la traduzione letterale. Si dovette riabituare a girarsi quando sentiva chiamare il suo nuovo nome, ma non ne poteva più di incontrare persone che non fossero in grado di pronunciare quello vecchio.
I genitori erano ora gli unici a chiamarla Svetla, nelle brevi telefonate, e alla fine era quel nome ad esserle diventato estraneo. Il regime si stava arrendendo e non c’erano più ritorsioni contro le famiglie dei fuggiaschi, come accadeva nel decennio precedente.
Con la cittadinanza americana in mano, Claire si guardò una sera allo specchio. Non le piaceva molto la sua vita presente. Si sentiva di non aver costruito molti rapporti umani, di avere accanto un uomo che le era diventato indifferente e di non sapere bene più chi fosse. A consolarla c’era il fatto che questo senso di insoddisfazione era ancora più grande nella sua vita precedente.
Dagli anni ‘90 Claire ha viaggiato ripetutamente in Bulgaria. Ha fatto in tempo a riabbracciare entrambi i genitori e ha seguito con entusiasmo i primi fermenti democratici che a breve l’hanno fortemente delusa.
È poi tornata una volta a Venezia, ha chiesto della polizia, gliel’hanno indicata. Ha provato a raggiungerla ma si è persa e non l’ha trovata. Ha alzato le spalle e si è incamminata verso la stazione.