Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.
di Costanza Pasquali Lasagni
Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare
È un viaggio che inizia alla stazione degli autobus di Charles Helou, a Beirut, sotto un lurido cavalcavia in mezzo al traffico e alla polvere, all’altezza di Gemmayzeh.
I pulmini sono ordinati per destinazioni, e attendono scientemente di essere pieni per poter partire. Il nostro, destinazione Damasco, è lì che ci attende. Decidiamo un viaggio VIP, cioè in un pulmino nuovo, con l’aria condizionata, e al massimo una decina di posti, per una decina di dollari ben investiti. È il fine settimana di Pasqua del 2010, e in Medio Oriente il caldo già si fa sentire.
Alla frontiera siro-libanese, Masna’a, ci mettiamo in fila per fare il visto per la Siria, dieci dollari, e pochi minuti di attesa, perché siamo italiane. Un gruppo di backpackers americani attende da ore, e il loro visto costa molto di più. Ci scambiamo un’occhiata solidale e ringraziamo mentalmente di essere cittadine di uno stato la cui politica estera è senza spina dorsale. A volte, come in questi casi, può essere utile. Stessa fazza, stessa razza.
In tre-quattro ore siamo alle porte di Damasco, il pulmino ci lascia a Sulemanye, la vecchia stazione degli autobus, e prendiamo un taxi che per meno di un dollaro ci porta a Bab Touma, la porta orientale della città vecchia.
È un sogno che si avvera.
Nei vicoli del quartiere cristiano troviamo con fatica – queste bellissime porte sembrano tutte uguali – la nostra casa. C’è il cortile in stile omayyade, la fontana in mezzo, il cortile coperto. Come in un libro di Khaled Khalife. È una casa di studenti, in Siria prima della guerra ci si veniva a studiare l’arabo, da tutto il mondo, e i nostri compagni di casa sono inglesi, pakistani, indiani, oltre che siriani.
Le case damascene si sviluppano attorno al cortile centrale, e nei piani superiori ogni stanza è un microcosmo. Ci si ritrova poi nel cortile, nella parte coperta per proteggersi dal sole del giorno o dall’umido della notte, per le chiacchere serali, un bicchiere di arak, un tè zuccherato. Si parla di sogni, viaggi, lezioni di arabo.
Pochi anni dopo, tutto questo sarebbe finito, infranto, rotto, come uno specchio scagliato via con violenza.
La notte è viva a Damasco, specialmente a Bab Touma, il quartiere cristiano. Ma a Damasco si sta tutti insieme, cristiani con musulmani, l’aria è leggera, il gelsomino diffonde il suo profumo tra i vicoli, si respira l’odore dolciastro dei narghilè, e ci tuffiamo a Beit Jabri per assaggiare le mezze più buone del medio oriente, con i chicchi di melograno che colorano il babaghannouj, i camerieri di una gentilezza estrema, e il gruppo di oud che suona in sottofondo. Poco più avanti verso le mura, il ristorante Oxygène ha una terrazza vista città vecchia, ed è lì che si balla il giovedì sera, musica arab-pop sì, ma anche salsa e disco.
È un’iniezione di vita questa Damasco, ci perdiamo nel souq Hamidiye, quello coperto, dove trovi qualsiasi cosa, dai profumi ai merletti, dai chiodi ai broccati damasceni, ai vestiti da sposa. Quello del gelato Bakdash, crema di latte e scaglie di pistacchio, che ancora adesso è aperto e la fila si vede da fuori, anche se i pistacchi, che in tempo di crisi costano tanto, ora sono mischiati alle noccioline.
Cercando cercando, scoviamo un hammam per donne, dietro il santuario sciita di Sayyda Rukayb. Bisogna seguire la strada, “doughry”, ci dicono i vecchietti a cui chiediamo aiuto, e poi ci sarà una tenda sulla sinistra. Bello nascosto da occhi indiscreti, non si sa mai. Scansiamo la tenda, scendiamo i pochi gradini, e si apre l’ennesimo universo magico. Il calore del vapore, i divani rialzati, la tazza di tè bollente che neanche sei entrata e già ti arriva in mano.
È il mondo delle donne, protetto da una tenda impenetrabile, che si ritrovano il sabato per fumare, bere il tè, chiacchierare, prendersi cura di sé.
Le signore dell’hammam, dalla pelle bianca e liscissima, ci guidano nelle stanze interne, tra i lavandini di pietra e le coppette di ottone, qui si fa lo scrub, qui invece il massaggio agli olii, lavanda, gelsomino, rosa damascena. C’è un’aria di festa, si canta e si balla, un gruppo di ragazze sta festeggiando una ragazza in procinto di sposarsi. Mai e poi mai avrei immaginato che anni dopo, nella stessa Damasco anestetizzata dalla guerra, le mie amiche avrebbero ritrovato quello stesso hammam, intatto, e organizzato per me la mia festa di addio al nubilato.
È finalmente la domenica di Pasqua, e Bab Touma è in festa. I bambini sono vestiti con il vestito buono, le chiese sono addobbate con festoni e palloncini, le bande di scout suonano le marce pasquali, i sacerdoti ortodossi e cattolici guidano le processioni tra le mura di pietra bianca e nera dei quartieri cristiani, i forni sfornano il pane di Pasqua, quello tondo con i semini di anice e il sapore dolciastro. A me la Pasqua è sempre piaciuta, si rinasce, ci si rinnova. Ci accodiamo alla processione, un corteo di persone che cantano e sorridono, salutiamo le persone che si affacciano dai balconi.
Per visitare la moschea Omayyade, dobbiamo seguire l’ingresso per le donne, dietro l’angolo, dove prendiamo in prestito un lungo e pesante abaya, nero o verde scuro, “coprite bene i capelli mi raccomando”, si premurano all’ingresso. Ora nel cortile della moschea non si può più sostare, né fare le abluzioni alla fontana centrale, per i famosi “motivi di sicurezza” che giustificano un po’ tutto in ogni parte del mondo.
Ma almeno la moschea c’è ancora, mentre ad Aleppo è solo un raggelante mucchio di sassi, guardati a vista da qualche soldato.
È lunedì mattina presto, il canto del muezzin ci accompagna mentre riprendiamo un taxi sgangherato che per il solito dollaro, ora il cambio è dieci-undici volte tanto, ci riporta alla polverosa stazione degli autobus, dove saliremo su un pulmino VIP che, una volta pieno, ci riporterà nella rumorosa Beirut.
La magia sembra finire, ma rimane addosso, come il profumo di gelsomino, e la speranza di un posto e una vita che ci auguriamo sopravviva, mentre già arrivano notizie infelici dai paesi vicini. È solo la primavera del 2010.
Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare, ma che sogno di tornare a fare al più presto.