Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.
di Elena Maranghi
«In questa terra bisogna venirci un po’ apposta, pure se si chiamano “terre di mezzo”, sono in mezzo a un bel niente. “Terre dell’osso” perché polpa non ce n’è, e restituiscono sempre la sensazione della “ri-creazione” del mondo. Queste albe e questi cieli selvatici evocano sempre l’origine del tutto. Ri-crearsi, cioè crearsi un’altra volta, diventare qualcos’altro, rinnovarsi.»
V. Capossela
Intorno al 20 di agosto, io e Margherita ci diamo appuntamento alla stazione Tiburtina. Non quella dei treni, quella dei pullman. Di solito fa molto caldo. La stazione brulica di una popolazione che proviene da ogni più piccolo e sperduto luogo del sud Italia e dell’Europa continentale, variamente accampata in ogni angolo disponibile, con borse, pacchi, scatoloni, valigie di ogni dimensione.
Margherita ha sicuramente con sé il suo zainetto nero e altre due o tre piccole borse. In una sicuramente c’è della frutta e dell’acqua, per affrontare il viaggio come si deve. Anche io ho con me uno zaino e qualche borsa sparsa. In una c’è un materassino gonfiabile, matrimoniale. Con una pompa a piede, per gonfiarlo. Entrambe abbiamo un sacco a pelo agganciato allo zaino. Lei è in ritardo e io mi trattengo dal chiamarla ogni 5 minuti, perché ho fiducia che arriverà – ce la fa sempre. Ma una volta, almeno, la chiamo. Tanto lo sa che sono fatta così. “Sto uscendo dalla metro”. Tipica frase che a Roma può significare qualunque cosa. Ma Margherita arriva. E mi raggiunge in fila allo sportello, per fare i biglietti.
Una volta abbiamo rischiato di non partire. I posti sul nostro pullman erano finiti: ne restava uno ma quella volta eravamo addirittura in tre, un amico si era unito. La mancanza di organizzazione fa parte di questo viaggio. Piuttosto però la chiamerei fiducia. Da quando mettiamo insieme le quattro cose che ci portiamo dietro l’ingrediente fondamentale che ci accompagna è l’affidarci: tutto si comporrà esattamente nel modo migliore. È il nostro annuale rito di riconciliazione con il mondo.
È sufficiente affidarsi e non avere fretta. Arriveremo. Le nostre domande avranno una risposta. Una risposta che forse dissiperà le domande e ce le restituirà tutte diverse, ma che in ogni caso non ci lascerà insoddisfatte. Io che di solito, nei viaggi, tendo, silenziosamente, a pianificare tutto, non pianifico proprio niente. Rinuncio alla costruzione di una “rete di protezione” da tirare fuori al bisogno. Ok, lo ammetto: gli orari del pullman li guardo. Ma nient’altro. Tutto il resto verrà da sé. E le nostre facce stupite brilleranno di risate e gli occhi si spalancheranno nel cogliere quelli che chiameremo “segni”. Segni da intrecciare alle nostre vite, fili di senso da gettare in avanti, alla cieca. Per cucire il futuro, impastato di passato, ma di sorpresa, anche.
La direzione del nostro viaggio è Calitri. Andiamo allo Sponz Fest. Il viaggio, che dura circa 5 ore, lo passeremo a chiacchierare e a osservare gli altri viaggiatori, cercando di capire chi sia in partenza per “lo Sponz”, come noi. Di solito quasi nessuno, perché Calitri è un posto abbastanza sperduto, e sono pochi quelli che, come noi, si ostinano a rinunciare alla macchina.
Ma la scelta del mezzo fa parte del viaggio. E ci troviamo a benedire tutte quelle compagnie gestite da famiglie originarie della miriade di piccoli paesi del sud, impossibili da raggiungere con la ferrovia, che ne garantiscono la connessione con il resto del mondo.Pian piano il pullman si svuota, finché quasi non rimaniamo solo noi, e qualcuno che “torna a casa”.
Dalla prima volta che siamo arrivate, due anni fa, Calitri ci ha accolto. Nel giro di qualche ora facce stupite ci avevano ringraziato per essere venute da così lontano, avevamo raccolto un passaggio per la palestra, trovato, per strada, un nuovo amico – mai più incontrato – che, dopo dieci telefonate, ci aveva scovato un posto dove mangiare (i ristoranti erano tutti pieni). Avevamo assistito, più tardi, nella notte, a balli sfrenati per le strade del paese. Sotto i bellissimi archi della parte bassa del centro storico un abitante di Calitri, un signore con i baffi, aveva ballato una folle mazurka con una giovane donna venuta da chissà dove. E avevamo visto una trebbiatrice volante.
Se vi state chiedendo perché dovessimo andare in palestra, è perché io e Margherita dormiamo in palestra. La palestra della scuola, si trova in basso rispetto al paese, al termine di una lunga discesa (più spesso salita) dalle cui curve si gode di una meravigliosa vista sulla campagna. Colori: giallo, verde, azzurro e viola, al tramonto.
La palestra i primi giorni del festival è quasi vuota. In palestra c’è l’eco, quindi si sussurra. Perché sicuramente, nascosto nel sacco a pelo, ad ogni ora del giorno – meno della notte – c’è qualcuno che sta dormendo. Alla rete da pallavolo si appendono gli asciugamani dopo la doccia, perché si asciughino. Per dormire in palestra si lascia un’offerta libera. E liberamente ci si sorride, tra sconosciuti. Specialmente quando qualcuno all’altro capo del campo di pallavolo russa forte. E nessuno riesce a dormire. Allora si scoppia ridere, senza neppure vedersi in faccia. In palestra c’è quell’odore tipico delle palestre, che ti riporta subito alle scuole medie, alle partite di pallavolo. E infatti qualcuno, ogni tanto, una partita la improvvisa, tra gli asciugamani e i materassini. La palestra è subito casa.
A Calitri il tempo inizia a scorrere diversamente e si fa di un’altra sostanza: è un tempo lento e denso. Ti fermi al tavolino di un bar, per un’ora, e il mondo ti passa accanto, addosso. Nel piccolo, negli incontri quotidiani, così come nel programma artistico del festival si costruisce una continua combinazione improbabile tra mondi culturali e sociali diversissimi.
È questa, probabilmente, la cosa più incredibile che ogni volta mi porto a casa da questo viaggio: assistere ad una continua alchimia di mondi. Un collidere in una festa continua, un rito collettivo in cui tutti siamo chiamati a partecipare. Noi lo usiamo per riappropriarci del tempo delle relazioni, per riappropriarci di radici, attraverso quelle degli altri. Che importa, infatti, se non sono esattamente le tue?
Io e Margherita ancora non lo sappiamo bene che cosa vogliamo fare “da grandi”. Mentre facciamo quel che facciamo andiamo in giro a raccogliere indizi, che un giorno cuciremo insieme. Lo Sponz Fest ci dà un impulso ogni anno, su questa strada. Ma senza fretta. Impariamo a stare. Insieme a tante altre cose.
Nel 2015 ho imparato che la trebbiatrice separa il necessario da ciò che non lo è; ho visto il concerto più lungo della mia vita, durato dal sorgere della luna al suo tramonto. Ho visto luna e sole darsi il cambio nel cielo, indugiando fino all’ultimo. In uno dei ristoranti locali hanno cucinato la pasta che poco prima avevamo impastato insieme ad alcune donne di Calitri. Giusto due spicci per il sugo. Ho comprato un paio di scarpe da ginnastica per andare a camminare e alla fine sono rimasta tutta la mattina a chiacchierare al bar. Ho imparato cosa significa “sponzare” e che allo Sponz gli orari non sono mai rigidi e il festival non è fatto di eventi ma di incontri. E gli incontri, si sa, vogliono il loro tempo e resistono alla programmazione.
Nel 2016, dopo aver fatto il bagno nell’Ofanto, il torrente gelato e potente che risveglia di acqua la terra arida, mi sono esercitata a passeggiare ad occhi chiusi per una strada dritta dritta in mezzo ai campi di grano. A braccetto con un ragazzo conosciuto un’ora prima, ci guidava una ragazzina di 12 anni, di cui per tutto il tragitto abbiamo conosciuto solo la voce, senza averla vista in volto.
Su quella stessa strada, durante una sosta sotto l’unico albero, uno dei compagni di strada ci ha regalato le sue poesie, declamate per noi e verso il cielo, e la terra.
Ho bevuto un bicchiere di prosecco alle quattro del pomeriggio, seduta sulle sedie di plastica davanti alla casa di un signore di Bisaccia. Circa 80 anni, aveva ballato la sera prima in piazza con Margherita, guidandola nei passi di mazurka e quadriglia… la sua potente solitudine di vedovo, asciutta e dolce, colmata per un attimo dalla gioia dell’ospitalità.
Mi restano molti altri ricordi. Poche foto, che il telefono lo si dimentica per qualche giorno. Mi restano le tante cose dimenticate, ma il senso di una fratellanza potente. Ma anche di un momento importante per rimettersi in piedi, rimettere in sesto il proprio cammino, perdere la direzione in un ballo, per ritrovarla. Dal 2015 al 2016 (e chissà, ancora quest’anno?) il festival è cambiato. Si è fatto più organizzato. Ma non ha perso la sua potenza. Non ha smesso di essere il luogo dove “ricrearsi”.
Forse è per quello che significano per me, quei brevi giorni, ma io credo che lo Sponz Fest non sia solo il progetto di Vinicio Capossela, che pure ne è il direttore artistico. È il rito collettivo di un paese, di una terra, e di chiunque decida di condividerlo. Me lo immagino nascere dal desiderio di un Uomo, prima che di un artista, prima che di un artista di fama internazionale. Un uomo sente il bisogno di rimettere le mani dentro la sua terra. Smuoverla per smuovere se stesso. Ed ecco che quella si connette al mondo che ciascun visitatore, artista, abitante locale porta con sé. Le radici si fanno relazioni. Relazioni che prendono corpo su quella terra, in quello spazio, che godono di quel tempo.
L’anno scorso Micah P. Hinson, dall’America profonda è approdato a Calitri e addirittura ci è tornato, per il concerto dell’ultimo giorno. E ha cantato “This land is your land”, con la sua voce imperfetta che ti punge dentro. Questa terra è anche la nostra terra. E un pezzetto del nostro cammino passa da qui. È a questo che serve il viaggio? È a questo che ci conduce questo viaggio, ogni anno. In questo viaggio siamo alla ricerca di magia, di ciò che è “festivo”, in qualche modo eccezionale, incosueto. Ma al tempo stesso di qualcosa che possiamo portarci nella nostra vita quotidiana, un carburante che alimenti il fuoco del nostro impegno, di ciò che facciamo e del perché lo facciamo.
Così abbiamo iniziato a cercarne altri, di riti collettivi. E tanti ce ne sono, vanno punteggiando il territorio più interno e meno raggiungibile, dove le radici, quali che siano, pulsano più forte, ma senza far paura. Sono radici energiche, ma accoglienti.
Cerchiamo occasioni nelle quali sentirci assolutamente nel posto in cui vogliamo essere. Perché per me è questo quel che più assomiglia all’essere felici. Quanta “lontananza” è necessaria per comporre un luogo, scrive Giorgio Ficara a proposito della Liguria. E allora perché non si può anche chiedersi quanta lontananza – da sé, dal proprio consueto ambiente di vita, dal tempo quotidiano – è necessaria per comporre noi stessi in una forma che ci sia più vicina? Che ci faccia sentire più “interi”? In forma intima e collettiva, così, per me, si vive un rito. Un rito che ti porti a casa. Che è eccezionalità, ma anche lentezza del costruire.
Così, nel raccontare a Margherita che avrei voluto scrivere di questo viaggio, ci è venuta voglia di provare a raccontarli tutti, questi piccoli viaggi intensi. Questi riti che non si sottraggono alla sfida di immaginare che cosa significa mettere insieme il modo di vita della città, con quello dei territori più interni. Sarà un po’ per vocazione, un po’ per mestiere, un po’ per amore, ma ci piacerebbe trovare un modo di raccontarli in maniera semplice, a partire dalle nostre esperienze.
Ne parleremo, io e Margherita, allo Sponz Fest 2017. Magari nel viaggio in pullman, che cinque ore sono tante. E “lo Sponz” magari serve un po’ a questo: a ricrearci e, forse, anche trovare le energie per “creare” qualcosa.
Grazie a Margherita, compagna di tanti viaggi, tra cui quello nella scrittura.