Senegal, l’incanto della scoperta

Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.

Racconto di un giorno da una finestra africana affacciata sull’Atlantico

di Gabriella Grasso

Cinque mesi dopo il mio primo viaggio in Senegal sono salita nuovamente su un aereo per Dakar. Troppo breve era stato quel soggiorno, con una bambina di sette mesi a limitare gli spostamenti alla capitale e i suoi dintorni: le isole di Ngor e Gorée, l’île de la Madeleine, il Lago Rosa. Eppure era proprio per la bambina che mi ero ritrovata all’aeroporto Léopold Sedar Senghor in un giorno di fine novembre: io e sua madre, sorella elettiva, la portavamo a incontrare la terra – e la famiglia – del padre. Ad accompagnare noi, a farci da guida, angelo custode, interprete, c’era Ibrahim. Avvicinarmi a lui era stata un’inconsapevole strategia per sentirmi protetta in una terra straniera. E per provare a intuire, standogli accanto, da quale prospettiva guarda il mondo chi è cresciuto lì senza mai andare altrove. Poi, eravamo diventati amici sul serio. Così, una volta in Italia, mentre l’inverno milanese cedeva il passo a un’incerta primavera, erano bastate un paio di telefonate per convincerlo a farmi da guida in un viaggio attraverso il suo Paese.

Da Dakar verso Nord, per passeggiare lungo le strade sabbiose della città coloniale di Saint Louis e scivolare in piroga sulle acque del fiume Senegal, nel parco naturale di Djoudji. Poi, invertendo la rotta, in auto verso il delta del Sine Saloum. E, sulla strada che punta a Sud, una sosta di un paio di giorni a Toubab Dialaw, un villaggio situato sulla Petite-Côte, in faccia all’Atlantico.

È lì che un pomeriggio, quando mancava almeno un’ora al tramonto, mi sono trovata da sola, su una piccola terrazza dell’hotel Sobo Bade – una pittoresca costruzione di pietre colorate – a piangere.

Non avevo cognizione del perché di quelle lacrime, provavo solo la sensazione, confusa, di aver ingerito una quantità eccessiva di emozioni che, in attesa di essere metabolizzate, si accalcavano in disordine tra la testa, il cuore e la pancia, togliendo spazio alla possibilità di pensare. E respirare.
La fretta irragionevole di comprendere tutto e subito, lo straniamento davanti ai montoni che giravano indisturbati per le strade cittadine e ai cumuli di immondizia sulle rive del fiume, le soste più volte al giorno per consentire a Ibrahim di pregare, il vento caldissimo che entrava dai finestrini dell’auto, le richieste insistenti dei venditori di strada, il suono misterioso del wolof. L’incanto della scoperta, paragonabile a nient’altro.

Il punto è che provo a essere disarmata, quando viaggio. Non metto libri in valigia perché leggere mi porterebbe altrove e io invece voglio essere presente. Presente e senza schermi. Desidero che il luogo nel quale mi trovo mi penetri sottopelle, lentamente, un poro dopo l’altro. Quindi annuso, ascolto, osservo, i sensi sono al lavoro 24 ore al giorno.

È questo, credo, che produce il sovraccarico: l’eccesso di stimoli può essere doloroso se non hai il tempo di assorbirli tutti. E quando ti muovi in mezzo a persone che hanno codici esistenziali diversi dai tuoi, oltre a un colore della pelle che non è il tuo, non puoi mimetizzarti e prenderti una pausa, mai: sei sempre una toubab, una bianca, una straniera. Così ti vedono e si approcciano a te, gli altri. E tu – priva di strumenti – devi inventarti ogni istante un modo efficace per comunicare che non passi solamente attraverso le parole condivise di una lingua comune.
Dalla terrazza guardavo giù, verso una piccola insenatura. Un gruppo di donne si affaccendava sul bagnasciuga: non capivo se stessero lavando i panni, sciacquando le stoviglie, o raccogliendo acqua di mare. Ho scattato qualche foto mentre le guardavo risalire verso il loro villaggio in fila indiana, tenendo in equilibrio sul capo grossi secchi colorati. Quando sono scomparse alla mia vista, non c’era più niente a distrarmi dalla mia malinconia e sono tornata in camera.

Dalla spiaggia arrivava nitido un suono di tamburi: per sciogliere la tensione ho provato ad accennare qualche passo di danza, ma le lacrime non si fermavano. Eppure non mi sembrava sprecato, quel tempo trascorso in camera mentre fuori c’era l’Atlantico in tutta la sua gloria: capivo che avevo bisogno di un tempo di solitudine, di uno spazio di silenzio.

Quando sono uscita, non avevo idea di dove fosse finito il mio amico Ibrahim. Poteva essere uno dei ragazzi che giocava a calcio sulla spiaggia, in lontananza. Il sole nel frattempo era tramontato, ma non faceva molta differenza perché il cielo era stato velato tutto il giorno. Un giovane uomo, seduto a pochi metri da me sul terrazzo più grande allungato sul mare, faceva andare lentamente le dita sulle corde di uno strumento che non avevo mai visto prima. Le percussioni sulla spiaggia si erano arrestate: c’era solo quella melodia delicata e il rumore del vento e il respiro potente dell’oceano e laggiù sulla spiaggia i ragazzi che, instancabili, correvano dietro al loro pallone.
Mentre mi lasciavo ammaliare dall’andamento regolare delle onde mi sono resa conto, con un certo stupore, che le lacrime avevano ceduto il passo a una rassicurante sensazione di arrendevolezza. Il respiro era tornato calmo, il cuore batteva al suo solito ritmo e avevo voglia di sorridere.
Ero di nuovo io.