Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.
di Valentina D’Amico
Sadiya siede sul sedile posteriore di una grande macchina nera. Esile, la morbida pelle beige sembra avvolgerla e lei sorride con i grandi occhi color della pece. Si sente protetta lì. Compagne di viaggio per caso, attraversiamo insieme distese di terra incolte, per lo più adibite a pascolo, sporcate a tratti da casupole solitarie, nel sud est turco, nella provincia di Diyarbakir, dirette ad Hazro, villaggio di poche migliaia di persone.
Il tragitto è breve, ma traboccante di storia vissuta intensamente, la sua e quella del suo popolo, quello curdo.
A 19 anni appena già una figlia Sadiya, capelli corvini come la madre, il viso tondo riempie lo schermo del telefono in un’istantanea che riempie d’orgoglio la mamma. “Anch’io ho una figlia” le rispondo e io pure orgogliosa esibisco la foto. I capelli gialli di Martina, così li definirebbe lei se fosse qui, colpiscono Sadiya: “è bellissima” mi dice.
Sposa bambina a 15 anni, resta subito incinta. E da subito le violenze del marito, le vessazioni della famiglia acquisita.
“L’ho lasciato, ho divorziato” mi dice con un misto di timore e orgoglio insieme. Ma vuol sapere di me, da dove vengo, cosa faccio nella vita. E mi dice “vorrei anch’io un giorno poter viaggiare, vorrei tanto visitare l’Italia, dev’essere davvero un bellissimo paese”.
Guardo fuori dal finestrino, i muretti a secco, la terra bruna e rossastra mi rimandano a casa.
In Salento il panorama è piatto, non montagnoso come nel sud est turco ma allo stesso modo arido. Più simile alla Sardegna o alla Sicilia il Kurdistan geografico. Molto differente dall’Italia tutta, politica e sociale. Individualista oggi più che mai, apatica, arresa al pressappochismo e all’ignoranza arrogante, la guardo da qui, da questi monti da decenni testimoni della tenacia dei curdi contro la discriminazione delle minoranze e l’oppressione statale, la solidarietà di un intero popolo. Sessista l’Italia appare da qui, più che mai, non platealmente ma nell’anima, per tradizione – insisto -, negli atteggiamenti, nella forma che pesa quando è megafono di sostanza. Anche per responsabilità femminile, perché è più facile sbattere le ciglia e ottenere il favore compiacente del maschio di turno.
Fiere le donne curde, in prima fila nella lotta per la libertà e l’autonomia di un intero popolo e, al tempo, per l’emancipazione femminile, la libertà e l’autonomia delle donne nella società.
“Vorrei visitare Roma”, m’incalza Sadiya riportandomi al presente del nostro viaggio. Nel corso del tragitto la confidenza cresce e, sorridendo complice, allunga di nuovo il telefono. Guancia a guancia, lei e …“tuo fratello?” le chiedo “vi assomigliate molto”. “No” risponde arrossendo un po’, “siamo innamorati”. Due gocce d’acqua. Nero corvino anche lui, bello almeno quanto lei, sorridono felici e ancora lei ne porta vivi i segni sul viso, disteso ora, dopo tre lunghi anni bui che ancora la tormentano, costretta a muoversi scortata.
Dopo il divorzio non ha avuto più pace, le minacce, gli agguati agli angoli delle strade.
“Non dirlo a nessuno mi raccomando. Spero che un giorno potremo stare insieme. Adesso sto provando a riorganizzare la mia vita, cerco lavoro, mi aiuta un’associazione per la difesa dei diritti delle donne che mi ha assistita in questo periodo difficile, mi ha dato la forza di reagire. Oggi ci sono le elezioni, sto andando a votare” che il cambiamento parte da noi. Ripone lesta il telefono perché neanche Sidar, il nostro autista per un giorno, sappia. Ma intuisce lui e, repentino, alza il volume della radio, “è la mia musica” informa orgoglioso, oggi apprezzato cantante folk, nel 2000 arrestato e rinchiuso in carcere per 8 anni e mezzo, ex militante del Pkk.
Auguro di cuore a Sadiya di realizzare i suoi sogni, le prometto di non rivelare il suo segreto. Ammiro i suoi lineamenti così decisi e dolci al tempo stesso, come il suo temperamento che ritroverò comune in ogni donna curda.
In Xezal, un lavoro presso la municipalità di Diyarbakir e il dipartimento di cultura e lingua curda, il piglio deciso di chi è cresciuta a pane e politica “per via di mio padre e di mia sorella che sono impegnati attivamente” mi dice, aggiungendo e ridendo di cuore “nella mia famiglia le donne sono forti e determinate, mio padre e i miei fratelli spesso lamentano di essere loro gli oppressi ora”. Orgogliosa nel rivendicare la decisa emancipazione femminile nelle città, nei grandi centri, “qui i matrimoni imposti non hanno più spazio” mi dice. “Nei piccoli villaggi ancora, in misura limitata comunque, succede che la famiglia imponga il marito, ma le donne presto o tardi si ribellano”. Incalzata ammette, “certo, sempre, anche da te in Italia, ogni lotta di emancipazione si scontra con chi non accetta il potere delle donne. A parole sono d’accordo, ma al momento di rivendicare e riconoscere nei fatti un diritto gli ostacoli non sono pochi”.
Per le strade di Diyarbakir passeggiano, entrano ed escono dai negozi, sostano nelle piazze giovani donne con e senza velo, indifferentemente, senza dar tanto peso al pezzo di stoffa che copre i capelli dell’una o al pantalone indossato dall’altra.
Mi ritorneranno in mente pochi mesi dopo quando la polemica sul burkini in spiaggia terrà banco sui media di mezza Europa, a partire dalla Francia. Per quanto mi riguarda, si può discutere della libertà di cui spesso le donne islamiche sono private, la cui emancipazione sarà un cammino lungo, difficile, ma uno Stato che m’imponga di vestire in un modo anziché in un altro mi inquieta non poco. Non so quale politica seguano i curdi al riguardo, sto a quello che ho visto.
Al Newroz per esempio, il capodanno curdo, festeggiato nonostante l’assedio governativo, alla periferia di Diyarbakir. Donne e uomini insieme in una promiscuità naturale, banale, banchettano per terra, si scatenano in balli di gruppo, urlano slogan di lotta, di resistenza, di speranza. I colori della tradizione nel loro abbigliamento, rosso giallo e verde sgargianti, a capo scoperto o coperto le donne, gonne lunghe fino ai piedi, pantaloni e magliette o tute mimetiche per emulare le guerrigliere del Rojava organizzate nelle Ypj o le combattenti delle Yps-jin del nord Kurdistan. Quelle che in Italia conosciamo soprattutto per via della loro somiglianza con affascinanti dive del cinema Holliwoodiano. La guerrigliera curda dagli occhi verdi Asia Ramazan Antar, bella come Angelina Jolie muore nel settembre 2016, così hanno dato conto i giornali. Che sia morta in battaglia combattendo l’Isis nel nord della Siria, un corollario nel corpo dell’articolo.
Al Newroz ci arrivo a bordo di uno dei tanti pullman predisposti per l’occasione dall’eccellente organizzazione curda. Al posto di guida una donna. Il Kurdistan turco è nel ventre del Medio Oriente, la Turchia è formalmente una società secolare ma, specie negli ultimi anni, sempre più piegata su posizioni conservative. Un fatto non da poco dunque. Nell’emancipata Italia, le cronache brindisine del gennaio scorso salutavano con titoli cubitali “La storia di Elda: l’unica donna in Italia a guidare bus a lunga percorrenza”, “La 43enne, originaria di Cellino San Marco” patria di Al Bano “macina quotidianamente centinaia di chilometri in giro per l’Europa, combattendo con tenacia i pregiudizi. “Mi hanno sbattuto un sacco di porte in faccia” diceva la poveretta.
Leyla Güven ha gli occhi buoni di una nonna. Continua a guardarmi affabile nel suo ufficio al DTK, il congresso della società democratica, il parlamento curdo, illegale per la legge turca ma di fatto riconosciuto dal popolo.
Dopo aver bacchettato amichevolmente – “con voi solo una donna!” – la delegazione di attivisti spagnoli a cui mi sono in ultimo aggregata, dunque di fatto incolpevoli di cotanta disparità di genere, chiarisce il suo ruolo: co-presidente, insieme a Hatip Dicle. La doppia leadership (un uomo e una donna) è la normalità nelle istituzioni pubbliche, nei partiti, in ogni organizzazione curda. Nei municipi governano i co-sindaci.
Gli uomini non possono opporsi all’elezione o alla nomina di una donna, mentre le donne possono rifiutare la nomina di un uomo che si sia macchiato di crimini contro le donne.
Mi viene da sorridere pensando alle nostre quote rosa, e alla conseguente sfida tra femmine, a chi sbatte meglio le ciglia per garantirsi una candidatura decisa a tavolino, in una minima rappresentanza percentuale per rivestire l’ennesimo ruolo di assessore o ministro alle pari opportunità se va bene, o altrimenti, notizia di oggi, “responsabile mamme” del partito democratico.
Ayşe Gökkan, avvocato, responsabile della diplomazia del Kja (Congresso delle donne libere, l’organizzazione di riferimento per le donne curde, oggi Tja movimento delle donne libere) mi spiega “la lotta per l’emancipazione della donna in Kurdistan va avanti da 40 anni, contro le violenze nella famiglia, nella società e negli Stati. È su questi tre livelli che combattiamo da sempre contro il pensiero dominante che è quello maschile.
Ed è grazie all’importante ruolo che, sin dagli anni ’90, le donne curde svolgono nella resistenza sul campo contro l’oppressione e la discriminazione statale e in qualsiasi altra forma organizzata, che la promozione della parità di genere è diventata un punto cardine del movimento curdo.
Nei municipi un contratto tra l’istituzione e i suoi dipendenti obbliga al rispetto di precise norme antidiscriminatorie. La parità è sancita nello statuto e nel programma politico dei partiti politici, delle associazioni miste. In ogni istituzione, pubblica o privata, qualora sia avviato un caso disciplinare nei confronti di una donna, mai ella sarà sottoposta al giudizio maschile. Investigare e decidere nel merito spetta in via esclusiva al Kja. Teniamo in gran conto il parere della donna” mi dice guardandomi dritta negli occhi Ayşe “perché generalmente il sistema scusa l’uomo. Anche in Europa, in ogni caso finisce sempre che sia la donna ad essere additata come responsabile e l’uomo come vittima. In questo modo cerchiamo di prevenire ogni sbavatura sessista”.
Da co-sindaco di Nusaybin, città di 90mila persone al confine con la Siria, nell’ottobre 2013 Ayşe Gökkan si oppose fisicamente al disegno turco di innalzare un muro di sette chilometri per bloccare gli aiuti umanitari verso la città siriana di Qamishli e da qui il transito di civili verso la Turchia. Iniziò uno sciopero della fame e rimase seduta accanto al cantiere per giorni, minacciata dai soldati che le impedivano persino di fare pipì, seguendola passo passo, anche la notte, illuminando a giorno con potenti fari ogni suo movimento.
Quel muro infine è stato issato e divide i curdi turchi dai loro fratelli in territorio siriano, parenti, amici. Come nella Berlino degli anni 80, come a Gerusalemme oggi.
Incontrerò di nuovo Ayse ai festeggiamenti del Newroz. Mimetizzata tra la folla di 500mila persone, la scorgo per caso, modesta, diresti una qualunque, sennonché si avvicendano a intervalli uomini e donne a salutarla con una stretta di mano e ad augurarle “Newroz pîroz be”, felice Newroz.
Di ritorno da Diyarbakir, finiti i festeggiamenti della primavera resistente, in quel marzo 2016 sbarco all’aeroporto di Brindisi. Recupero l’auto, imbocco il corridoio verso l’uscita quando un uomo tra i 50 e i 60, arrivando contromano accelera e pretende di passare per primo, i cofani si sfiorano, inchiodiamo entrambi. Mi urla contro. Ho davanti gli occhi decisi e fermi di Sadiya, Leyla, Xezal, Ayşe. In passato avrei sbraitato. Lo guardo ferma e decisa, non arretro. Suona il clacson indispettito. Non mi scompongo. Gli faccio cenno col capo di evitare di avanzare, di arretrare. Col palmo della mano aperto e teso, il braccio disteso mi apostrofa “Ma sta cretina, torna a casa a fare la calza”, e risparmio le volgarità. “Spostati” gli dico articolando bene le lettere perché capisca dal labiale. Inveisce ancora, mi insulta con i peggiori epiteti. Io ferma, risoluta, impassibile, lo fisso dritto. Pochi istanti e le guance gli crollano sul mento, abbassa lo sguardo lo rialza solo per verificare il mio sguardo, lo ritrova deciso. Ingrana la retromarcia. Avanzo e me ne vado. Con la coda degli occhi lo vedo scuotere il capo.
Un aneddoto, infine, che fa ridere per la sua pochezza, la sua ingenuità, ma tant’è.