Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.
di Ilaria Rossetti
Un viaggio sul cammino di Santiago, tra incontri fugaci con viandanti, fatica e ospitalità, dove ci si lascia alle spalle le preoccupazioni della vita quotidiana
Sono seduta per terra, sulla strada principale di Hontanas, nel cuore delle mesetas della Castilla y León, e guardo Carlo che si allontana.
A ogni passo solleva polvere e sabbia, la stessa che ho sulle gambe, sui vestiti, sullo zaino, e immagino che probabilmente non lo incontrerò più: perché il Cammino Francese è così, fatto d’incroci e di riconoscimenti e di persone che devono prendere la loro strada. Hontanas ha tre o quattro vie, qualche casa, qualche bar, un paio di albergues per pellegrini, una chiesa: è così sprofondata tra gli altopiani che fino all’ultimo non siamo riusciti a vederla.
Fa caldo, ho molta sete e mi fanno male le gambe: però non ho voglia di muovermi dall’asfalto; aspetto che Carlo, con il suo zaino perfettamente compatto e il ciuffo biondo agitato dalla brezza, scompaia dalla mia vista. Non lontano, Rachel, Taylor e Valerio prendono fiato: è stata una tappa dura, 30 chilometri di vento, campi di grano e orizzonti piatti.
A Burgos, all’alba, si gelava, ma eravamo felici di lasciarci alle spalle la città: quando cammini per giorni lontano dal caos e dalla società civile, tornarci fa male. Carlo adesso non si vede più. Col suo passo deciso, col suo carico di sofferenza, ha ripreso a camminare.
Dario, non lontano da me, non parla: so perché sta in silenzio, ed è lo stesso desiderio che provo io, tutte volte che l’umanità dolente e irrisolta del Cammino mi racconta un po’ della sua storia. Oggi è stata la volta di Carlo. Senza che dovessimo chiedere, senza quell’inopportuna domanda che ho odiato fin dal primo giorno di cammino: perché sei qui. Bastano pochi chilometri per capire che nessuno è qui per caso e che chiederne conto è una violenza.
Sono nove giorni che cammino, nove giorni che dormo nelle immense camerate degli albergues, in mezzo a corpi, sogni e rumori di perfetti sconosciuti, che mi sveglio alle cinque del mattino, ripiego il sacco a pelo, mi lavo i denti, rifaccio lo zaino ed esco prima che faccia l’alba; nove giorni che cammino i miei 25, 35 chilometri quotidiani e poi mi fermo in paesi generosi di silenzio, gentilezza, vino, dove il tempo ha un’altra sostanza.
Il corpo si è abituato allo sforzo, ma a ogni arrivo c’è un nuovo dolore di cui prendersi cura: così ci si lava, ci si ispeziona, ci si aggiusta gli acciacchi. Non sono affatto una pioniera, ma una delle migliaia di persone che ogni anno decidono di percorrere gli 800 chilometri che da St Jean Pied de Port conducono a Santiago di Compostela, attraversando il nord della Spagna da est a ovest, lungo le antiche traiettorie dei pellegrini.
Uno dei tanti esseri umani dalle vite sempre in corsa, che vengono qui per fare una cosa elementare e difficilissima: rallentare, darsi tempo, camminare sulle proprie gambe.
Da Pamplona, da dove sono partita, alle mesetas in cui ci troviamo adesso, in agosto la strada si fa torrida, polverosa: si passa dai campi di grano e girasoli della Navarra ai vigneti sterminati della Rioja, alle depressioni desertiche della Castilla y León; su tutto l’azzurro di un cielo che non smette di meravigliarmi.
Ma non è semplice scrivere di questo Cammino: in troppi lo hanno già fatto, e il bel primo mondo che può permettarsi viaggi da cliché new age brulica di guide tecniche, di guide spirituali, di saggi fricchettoni e raccolte di carmi ispirati, storie di miracoli, conversioni, lutti elaborati, riscoperte spirituali.
Tutte cose da cui, prima di partire, mi sono tenuta accuratamente alla larga. Sto cercando, invece, di osservare hic et nunc: di capire come succede di scendere a patti col dolore, noi ossessionati dalla sua chirurgica e puntuale rimozione, scegliendoselo quotidianamente, nelle vesciche, nelle infiammazioni, negli strappi, nelle tendiniti; di capire come alla confusione e alla moltitudine di pensieri si sostituisca, quasi immediatamente, la semplicità del camminare; di capire quest’intensità che pervade ogni spazio e ogni cosa vivente.
Qui a Hontanas, per adesso, il vento si è placato: Dario si alza, gli altri anche. È tempo di cercare un luogo dove lavarsi e riposare. Raccogliamo gli zaini e cominciamo a scendere nel paese. Le mesetas, oltre i tetti che si scorgono in fondo alla vallata, continuano. Là, in questo momento, cammina Carlo.
Esiste una pietra per ogni preoccupazione, mi hanno detto: la raccogli per strada e la porti con te, lungo il Cammino, anche se appesantisce le tasche, il marsupio, lo zaino. Che forse il senso è proprio questo: sentirla pesare, affondarti verso terra e rallentarti il passo, farti soffrire a ogni metro.
Cominci quindi a porti delle domande, su questo macigno che ti trascini dietro: per tutte le questioni irrisolte delle nostre vite, per i dubbi, per i congedi forzati, per questo non darsi tempo, per la fretta di arrivare senza essersi guardati attorno.
Mi hanno però detto che un bel giorno, all’improvviso, la pietra si fa più leggera, e non c’è ragione di non restituirla alla natura: così la lasci per strada, o su qualche cippo che segna la via dei pellegrini, e il bagaglio si fa finalmente meno pesante.
Ogni chilometro che percorro è disseminato di pietre: mi feriscono le suole, s’impolverano ai lati dei sentieri, si accumulano accanto alle frecce gialle, però in qualche modo attenuano questa malinconia e riempiono gli immensi silenzi del Cammino di storie che non conoscerò mai, ma che spirano, atroci e irrisorie, lungo il vento delle mesetas e le tavolate comunitarie degli albergues, dove si ride, si scherza e si brinda come se quelle pietre non fossero mai esistite, oppure a maggior ragione perché esistono, e sentiamo che stiamo imparando a lasciarle andare.
Jesús e il suo amico basco: li incontro ad Agés, poco prima di Burgos, e continuerò a incrociarli per parecchi chilometri. Il primo basso, tarchiato, sui settant’anni, con una bella pancia alcolica; l’altro alto e ben piazzato, sempre sorridente. In comune hanno una grandissima passione per lo spirito: vino, birra, gin tonic.
Si sono incontrati lungo il Cammino e stanno percorrendo queste tappe insieme. Partono che è ancora notte, vanno come dei trattori e poi, una volta registrati all’albergue, cominciano i loro pomeriggi di descanso e brindisi. Vederli mi mette sempre di ottimo umore, il loro calore incondizionato è un abbraccio: hanno sempre voglia di condividere la tavola, il pasto, la bottiglia, e Jesús è un grande raccontatore di storie.
Ho sempre la sensazione che la maggior parte siano inventate: me le sussurra col suo spagnolo strascicato, gli occhi spalancati e brillanti, è un folletto ubriaco che potrei ascoltare per ore, e le sue visioni sono abbaglianti come il sole di mezzogiorno di queste settimane. Accetto di buon grado, non sono qui per stabilire norme.
Li vedo per l’ultima volta a Carrión de los Condes, nell’albergue Espiritu Santu. È un ex convento che accoglie i pellegrini, le stanze sono pulite e luminose e le suore coordinano il tutto con una dolcezza militaresca.
Ci incontriamo dopo cena, fuori dalla cucina comune, prima che scatti il coprifuoco: sono alla quarta bottiglia di vino, e non sono ancora riuscita ad aprire bocca che mi ritrovo con un bicchiere in mano.
Parliamo di tutto, parliamo di niente. Spagnolo, inglese, italiano si mescolano, mentre il cortile del convento si svuota lentamente e le luci cominciano a spegnersi; qualche panno, rimasto ad asciugare, ondeggia al vento, e comincia a montare il solito silenzio, impavido e notturno.
Santa Catalina de Somoza nel cuore e soprattutto nel fegato: due vie e una manciata di case nel mezzo della Castilla y León arroventata dal sole, e ci arriviamo stanchi e affamati, con ancora 15 chilometri da percorrere.
Ignari, crediamo di poterci nutrire e riposare in quiete: non sappiamo che a Santa Catalina è in corso un banchetto in strada, per la festa patronale. Non facciamo in tempo a toglierci gli zaini che, tra grida e applausi, gli abitanti cominciano a riempirci di vino, empanadas, biscotti.
In trenta secondi mi ritrovo con una bottiglia in mano, e la mezz’ora successiva è un gioioso delirio di brindisi e condivisione: i bicchieri vengono riempiti fino all’orlo, l’acqua è bandita, appena smetto di mangiare un tizio spagnolo corre a piazzarmi un’empanada in mano.
Tutto poi finisce all’improvviso, come un flash mob: il risultato è un gruppo di italiani, americani e coreani completamente satolli e ubriachi alle due del pomeriggio, con ancora tre ore di cammino davanti.
Non so come, ma comunque ci trasciniamo fino alla meta. Rabanal del Camino ci accoglie con morigerata quiete: collassiamo dopo una pasta aglio, olio e peperoncino, ringraziando Santa Catalina per l’affetto travolgente e la sbronza colossale.
La conclusione non è Santiago, la conclusione è Finis Terrae. La fine del mondo antico, il chilometro zero, il congedo dal Cammino.
Ho trovato, nella tasca del mio pile, un rametto di lavanda. L’avevo raccolto a Villafranca del Bierzo, dopo un’alba di saluti malinconici, mentre aspettavo che il paese si svegliasse: faceva freddo, i bar erano ancora chiusi, i campanili avevano ombre gentili.
Ho lasciato la lavanda al Faro di Finisterre; l’ho lasciata come avevo fatto con la mia pietra delle mesetas, tra campi e argilla rossa, e con una fotografia che, dopo cinque anni nel mio portafogli, adesso è appoggiata alla Cruz de Hierro, ai piedi delle montagne della Castilla y León. Niente di programmato, di prestabilito. Solo un vento che è cresciuto pian piano, a ogni chilometro.
In questo mese ho pianto più di una volta, ho sorriso quasi tutto il tempo.
Ho ascoltato storie di dolori intimi e assoluti, ho scherzato e fatto festa e bevuto birra e se c’era pudore nella solitudine, non vi era ritegno nella condivisione: immediata, sincera, semplice.
Ho incontrato persone che, dopo un solo giorno di cammino, mi sembrava di conoscere da una vita intera. Ho avuto sete, una sete terribile, e un’anziana in vestaglia azzurra, nel nulla rovente prima di Ponferrada, ha riempito la borraccia mia e di altri sei sfiniti pellegrini rimasti privi di acqua, senza che dovessimo chiederlo.
Sotto le stelle di Azofra me ne sono stata con i piedi a mollo in piscina, bevendo vino della Rioja e parlando di tutto, e poi si è fatto tardi e si è fatto silenzio e non c’è stato bisogno di altre parole. Ho amato poco le città, mi hanno disorientato e assordato: mi sono accorta di cercare il pugno di case, gli albergues improvvisati, lo stendino dei panni sul marciapiede, i vecchi appollaiati sulle sedie di plastica.
Ho detestato il turismo selvaggio delle ultime tappe e il sovraffollamento a cazzo, comparsi all’improvviso, quasi a ricordare che il disastro del mondo, là fuori, continua.
Ci vorrà tempo, per capire davvero questo viaggio. Per scriverne bene, per scriverne con cognizione di causa. Adesso mi limito a respirare l’Oceano, a sentirlo sotto la pelle. So che devo tornare, alla fine bisogna tornare sempre: lo faccio in pace e un po’ in tumulto, che questi 600 chilometri a piedi li rifarei domani, che che è bello sapere lasciare andare, che è molto bello, soprattutto, trovarsi.