di Caterina Mazzilli
Mi hanno sempre affascinata, le città. Un microcosmo complesso in cui si incrociano vite molto diverse tra loro, uno spazio con delle dinamiche particolari, che se non sei “del posto” spesso fai fatica a capire.
Mi occupo di analizzare come alcune città si siano costruite quell’immagine di apertura, accoglienza e tolleranza per cui le conosciamo oggi. Quando ho steso il mio progetto di ricerca, ho deciso di confrontare una città inglese con una italiana, per essere sicura che i risultati che avrei trovato non fossero dovuti solamente a fattori specifici e non riproducibili in altri luoghi. La scelta dei casi studio è stata facile, quasi intuitiva: Brighton in Inghilterra e Bologna in Italia. Chi non ha mai sentito dire che Bologna è “accogliente”, “aperta”, “alternativa”?
Ho passato mesi a intervistare persone che, a vario titolo, fanno parte delle istituzioni locali ma anche cittadini stranieri che vivono a Brighton o a Bologna da anni. E questo perché volevo afferrare anche “il rovescio della medaglia” e capire cosa contribuisca a costruire l’immagine pubblica di una “città aperta”, ma anche quali fattori la facciano percepire come tale.
Quand’è che, vivendo in una città, sentiamo di vivere in un ambiente ricettivo e ospitale?
L’immagine di Bologna come l’archetipo della città di sinistra, della città dei movimenti, ma anche del welfare e della cultura, è ancora molto vivida nella retorica dell’amministrazione cittadina. I rappresentanti delle istituzioni con cui ho parlato ci hanno tenuto particolarmente a sottolineare che la storia locale della difesa dei diritti civili si perde nella fondazione stessa di Bologna: il liber paradisus, il primo libero Comune dell’Italia medievale, cha poi ha trovato nella Resistenza e nella liberazione dal nazi-fascismo il suo momento di più alto impegno politico.
Ma anche la narrazione della Bologna del welfare è ancora forte: l’attenzione di Bologna per i suoi cittadini, il “mettere le persone prima di tutto” e l’essere empatici nelle difficoltà sono stati punti toccati molto spesso.
Ma, alla luce dei cambiamenti avvenuti a Bologna negli ultimi anni e culminati nello sgombero del centro sociale Làbas, c’è un elemento che stride in questa presentazione: la valutazione della cultura e della diversità come un arricchimento per la città stessa. Sono proprio le istituzioni a lodare Bologna come un luogo composito che possiede un’abilità straordinaria per far germogliare ed esprimere la cultura in tutte le sue forme, dall’innovazione all’associazionismo. E sono sempre loro a mostrarsi consapevoli di quanto la diversità generi una straordinaria dinamica relazionale in grado di sviluppare iniziative sempre nuove.
La diversità è la forza su cui è fiorita Bologna. Diversità etnica, quando Bologna era un centro nevralgico in cui confluivano le opposizioni ai regimi dittatoriali in Sud America, perché l’antifascismo aveva insegnato che nessuna dittatura va accettata; diversità di genere e orientamento sessuale, essendo stata Bologna una delle città italiane pioniere nella difesa dei diritti LGBTQ+; diversità nella composizione della popolazione, grazie alla presenza dell’università che ha attratto studenti da tutto il mondo fin dalla sua fondazione; ma anche e soprattutto diversità nella cultura.
La cultura mi è descritta come inclusiva e partecipativa per natura, ma soprattutto capace di migliorare la vita dei cittadini stessi, dandogli la possibilità di fare qualcosa per il luogo a cui appartengono e di farli sentire parte integrante di esso.
Tuttavia, questa presentazione stride in modo acuto con quanto sta succedendo a Bologna negli ultimi anni, e mi riferisco agli sgomberi di centri sociali iniziati nel 2013 col Bartleby, continuati nel 2015 con l’Atlantide e con l’XM24 sotto perenne minaccia di sgombero e culminati l’8 agosto scorso con lo sgombero del Làbas e del Laboratorio Crash.
Tutti questi luoghi altro non erano che erano centri d’aggregazione in cui si faceva cultura, in cui a vario titolo si costruivano percorsi che legavano le persone alla città facendole sentire di appartenere a qualcosa ma anche dove si organizzavano quei servizi che le istituzioni non sono più in grado o interessate a provvedere.
Pensiamo, per esempio, alle attività di Làbimbi al Làbas, al progetto Accoglienza Degna o al mercato contadino di Campi Aperti: il primo forniva laboratori creativi e doposcuola gratuiti per bambini delle scuole elementari, il secondo consisteva in un progetto di accoglienza per migranti libero dall’approccio emergenziale che caratterizza la politica italiana mentre l’ultimo era un mercato dove si potevano comprare prodotti biologici di agricoltori locali a costi abbordabili. Educazione, accoglienza e alimentazione, servizi di base che stanno diventando sempre più inaccessibili e che, proprio grazie all’intermediazione di un centro sociale, potevano essere alla portata di quella comunità cittadina che Bologna dovrebbe mettere al primo posto.
Perché una città che ha tanto a cuore la cultura autorizza lo sgombero di realtà che l’hanno fatta diventare quello che è?
Forse potrebbe essere utile chiederci quale sia il significato dato oggi alla parola cultura. La street art è cultura nella street, dov’è nata, o lo è solo tra le mura di un museo? I dibattiti, i concerti, le attività organizzate da Làbas (come dagli altri centri sociali bolognesi) sono cultura anche nei centri sociali o lo sono solo se i dibattiti sono organizzati nelle università, i concerti in un localino indie al costo di 20 euro a biglietto e il biologico si compra in un mercato-boutique in centro?
Insieme a questo però, dovremmo anche chiederci come stia cambiando lo spazio pubblico e la concezione di chi sia autorizzato a viverlo e usarlo. L’ex caserma Masini, sede di Làbas, era passata dall’essere un luogo che versava nell’abbandono ad essere un punto di ritrovo vivace e vitale, aperto al pubblico con finalità diverse (e migliori) rispetto a quelle per cui era stata pensata. E così gli altri centri sociali sgomberati nel corso degli ultimi anni, ora ridotti a quattro mura silenti.
Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un articolo[1] in cui due accademici sostenevano che “la partecipazione di certi gruppi indesiderati nello spazio pubblico è stata [da sempre] ristretta usando metodi che vanno dal razzismo esplicito e forza bruta a subdoli meccanismi di esclusione”. Dopo aver letto le cronache degli ultimi giorni mi è difficile non pensare che a Bologna non si stia controllando lo spazio pubblico, escludendo alcuni e includendo (pochi) altri.
Ma insieme al cambiamento e al crescente controllo sullo spazio pubblico, insieme all’allontanamento di chi è indesiderato perché portatore di una prospettiva altra, si sta perdendo ben altro: si sta perdendo la diversità, la pluralità, la possibilità di incontro che nasce solo in spazi realmente aperti, inclusivi e spontanei.
Ma si stanno perdendo anche dei servizi che, attraverso reti informali e capitale sociale (quello stesso capitale sociale per cui l’Emilia è celebrata) danno la possibilità anche a chi altrimenti non ce l’avrebbe di fare una spesa sana a un prezzo onesto, di lasciare che i propri figli sperimentino con la pittura all’interno di un cortile o di ascoltare un concerto a offerta libera.
Le istituzioni, se realmente consapevoli del valore che la diversità e la cultura hanno per Bologna, dovrebbero essere le prime a sostenere e a dialogare con questi centri di produzione culturale dal basso, per essere una città accogliente nella sostanza e non solo in vetrina.
[1] Come ricercatrice, sono ossessionata dalle fonti. L’articolo è il seguente: Emine Onaran Incirlioglu & Zerrin G. Tandogan (1999) Cultural Diversity, Public Space, Aesthetics and Power, European Journal of Intercultural studies, 10:1, 51-61, DOI:10.1080/0952391990100105