ROMA: L’UMANITA’ CHE MUORE

Un sgombero violento, nonostante la protezione internazionale, la punta di un iceberg

di Martina Di Pirro

“Siamo rifugiati, non terroristi. Vogliamo una casa!” è il grido che si leva alto e dignitoso dalla voce dei rifugiati sgomberati il 19 agosto, a Roma, dal palazzo in via Curtatone 3, a due passi dalla Stazione Termini e accampati per quattro notti con mezzi di fortuna in Piazza Indipendenza.

Grida inascoltate dalle forze politiche e dalla polizia in tenuta antisommossa che ieri, 24 agosto, alle 6:45 del mattino, con il pallido sole negli occhi e una Piazza Indipendenza chiusa al traffico, arriva nuovamente con quattro blindati e una squadra di vigili del fuoco.

Manganelli, idranti e atteggiamenti respingenti con il fine di riportare il decoro in città, sparpagliare i rifugiati e ristabilire l’ordine.

Secondo quanto riportato da Medici Senza Frontiere, la violenza prodotta dalle cariche della polizia ha causato il ferimento di tredici persone.

Uno sgombero senza alternative se non quella della strada, senza piani B di accoglienza e integrazione, con un evidente utilizzo della forza in un agosto afoso e tempistiche perfette per evitare la resistenza.

Uno sgombero accompagnato dal silenzio assordante dell’amministrazione capitolina, che ancora non ha reso noto quale sia l’intento, dove finiranno queste persone, cosa si prevede per una città europea che è diventata la capitale degli sgomberi (ha superato la ventina solo quest’anno) e regno del decreto Minniti – Orlando.

Ad oggi, l’unica soluzione proposta, dopo la riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza del 23 agosto scorso, sembra essere quella secondo cui le famiglie di migranti con minori, disabili e anziani non autosufficienti verranno ospitate per sei mesi in alloggi messi a disposizione della società di gestione dell’immobile nella zona di Rieti.

La Idea Fimit S.G.R., infatti, fornirà subito le unità abitative senza oneri per l’amministrazione comunale con delle modalità operative ancora da stabilire.

Uno sgombero, quello di via Curtatone, e un modus operandi che ha destato preoccupazione anche in seno alle Nazioni Unite. Il sacerdote candidato premio Nobel Mussie Zerai, punto di riferimento della comunità eritrea in Italia, chiede “un’intervento urgente e una successiva radicale riforma dell’attuale sistema di accoglienza”. Preoccupati anche i cittadini e gli attivisti presenti sul posto, che, vicini agli sgomberati, chiedono spiegazioni.

“Questa è una guerra ai poveri, – dice Federica, un’attivista sveglia da ore e indignata – una guerra inaccettabile. Ci riguarda tutti e tutte da vicino, perché parliamo di un diritto universale: quello di una vita dignitosa. Dove li porteranno?”

“Siamo i primi a dire che l’occupazione non può essere l’unica soluzione – continua Simona, anche lei in piazza per solidarietà con i rifugiati – ma quali sono le alternative? La strada? L’unico intento è sparpagliarli, così danno meno fastidio. Questa è una lotta di classe, una lotta al povero.”

Sono per la maggioranza eritrei ed etiopi le persone sgomberate, tutti rifugiati e quindi in regola con il permesso di soggiorno, che per anni hanno mandato i propri figli nelle scuole della Capitale – gli stessi bambini che ora giocano con un velo di tristezza per le strade e cercano di capire perché si trovano senza più una casa – e hanno cercato e trovato lavoro con l’unico intento di provare ad integrarsi in assenza di ogni tipo di alternativa istituzionale.

Un’accoglienza meramente burocratica, quindi, che al riconoscimento dello status di rifugiato non ha fatto seguire percorsi di integrazione o di inserimento in strutture in grado di garantire un’esistenza degna.

Lo stabile di via Curtatone 3, ora definitivamente vuoto dopo il trasferimento violento degli ultimi occupanti presso la Questura Divisione Stranieri di via Patini, era stato occupato nel 2013 nell’ambito di una mobilitazione dei movimenti per il diritto all’abitare romani partita a seguito della tragedia di Lampedusa in cui avevano perso la vita centinaia di persone.

L’occupazione di via Curtatone, quindi, era anche un simbolo preciso: collocandosi in un quartiere centrale, vicino la sede del Consiglio Superiore della Magistratura, del consolato tedesco, e a pochi metri dalla redazione romana del Sole 24 Ore e del Corriere dello Sport, nonché vicinissimo alla stazione Termini, il primo tra gli snodi principali di arrivo, aveva resistito tutti questi anni permettendo alla giustizia sociale di farsi garante dei diritti umani e di denunciare, a fatti, le falle del sistema dell’accoglienza della capitale italiana.

Lo stabile era uno dei pochissimi presidi rimasti nella Capitale, dopo lo sgombero definitivo del 30 settembre 2016 di via Cupa, punto di accoglienza in cui i volontari di Baobab Experience, con cuore e passione, portavano pasti e tentavano di fornire beni di prima necessità e cure mediche ai migranti, ora costretti per strada a subire sgomberi su sgomberi, e dopo gli episodi di via Vannina, a Tor Cervara, in cui cinquecento persone sono state sgomberate da un capannone abbandonato e costrette a dormire in uno fatiscente, poco distante, o, in alternativa, per strada.

Sembra che la capitale si trovi di fronte ad una scelta ben precisa. Bisogna chiedersi fino a che punto si è in grado di sopportare la disumanità e la violazione di diritti umani più basilari – una casa, un’esistenza degna per sé e per i propri figli – in nome di un ancora non ben identificato decoro urbano, un decoro che affossa i poveri, li disperde, li nasconde sotto il tappeto. O se forse è arrivato il momento, dopo una delle estati peggiori che i diritti umani abbiano mai visto, di prendere posizione.

Mentre la Sindaca è impegnata a eleggere sempre nuovi membri della giunta, con assessori che vanno e vengono e a tagliare sul sociale per 50 milioni di euro, intanto migranti, rifugiati, senza tetto, cittadini e cittadine aspettano una risposta.