La memoria della guerra in Bosnia nel reportage di W.L.Tochman
di Christian Elia
Immaginate una stanza, senza finestre. Le pareti sbrecciate, l’intonaco a pezzi. E pochi oggetti, vecchi e distrutti, sparpagliati sul pavimento.
Ecco, adesso avete un’idea dello stile di Wojciech L. Tochman, reporter polacco, capace di mostrare il volto più crudo della vita. E della guerra.
Pubblicato in Italia da Keller, nella collana razione K, dedicata al giornalismo narrativo, il libro Come se mangiassi pietre è la dura cronaca di un viaggio in Bosnia – Erzegovina, nel decennale del conflitto che dilaniò la ex-Jugoslavia.
Un viaggio nudo, senza consolazioni, tra gli orrori di un conflitto deciso in stanze che un tempo univano, pensato per dividere, meglio se per sempre.
Un rosario di piccole storie, di personaggi in cerca di risposte, che sono in fondo a una fossa comune, nell’esame del DNA di un osso umano, nell’incontro con il vicino di casa che si è voltato dall’altra parte, nel nuovo inquilino di quella che un tempo è stata casa tua.
Un elenco di destini, a volte inspiegabili, come quelli di chi è riuscito a vagare settimane in una foresta portando a casa la pelle, ma perdendo l’innocenza, o di chi è morto per aver scelto il giorno sbagliato per una commissione.
Tochman attraversa confini che non c’erano, ma che ora si toccano come cicatrici senza umanità. Attraversa vite appese all’assenza, di una tomba su cui piangere, di un futuro o di un passato. Senza differenza.
Già in Oggi disegneremo la morte, disponibile in italiano sempre grazie a Keller editore, dove racconta il genocidio in Ruanda, la scelta di Tochman è evidente: nella guerra non cercate l’uomo. C’è prima, c’è dopo, ma durante è come un profugo che lascia il campo all’animale che teniamo a bada.
Tochman, che si iscrive a pieno titolo nella grande scuola del giornalismo polacco, che ha in Kapucinski la sua star, sceglie uno stile empatico e allo stesso tempo lontanissimo. Perché guarda gli esseri umani da vicino, non da lontano.
Lo fa mettendo anche se stesso di fronte all’orrore e alle alienazioni della guerra, senza sconti. E senza concedere nulla alla geopolitica, che troppo spesso da spiegazione diviene giustificazione. Perché in guerra le responsabilità, oggi come mille anni fa, restano di tutti noi.