Tra memorie familiari e cittadine, una raccolta di racconti della scrittrice sarajevese Lejla Kalamujić tematizza la triade morte-follia-sessualità
“… se fossi un balcanico, se fossi un balcone, il balcone balcano” cantava Elio ne “La canzone del I maggio”. Con la fine delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia un nuovo spazio si è creato nella cartina europea: un buco nero, sgangherato, esotico, eccentrico, sanguigno e bizzarro. Dove la gente spara in aria con il kalashnikov per dimostrare la sua ilarità e brinda fino a frantumare i bicchieri. Così sono ri-nati i Balcani come un’idea di ferinità, caos e violenza liberatrice. Tutto quello che spaventa ma allo stesso tempo attrae le società europee riversato in un’area del mondo. Poi sono arrivati Goran Bregović ed Emir Kusturica e hanno venduto un brand da esportazione, che in Europa occidentale ha trovato particolari estimatori. In questo blog offriremo alcuni frammenti culturali dallo spazio jugoslavo e post-jugoslavo che hanno poco in comune, se non quello di riuscire sconosciuti a chi in quei luoghi va a cercare i Balcani.
di Francesca Rolandi
“Zovite me Esteban” [Chiamatemi Esteban], una raccolta di storie brevi, insignita del premio Edo Budiša, conduce il lettore attraverso la narrativa di Lejla Kalamujić, una scrittrice appartenente alla generazione nata nei primi anni ‘80, quel decennio d’oro per Sarajevo che sarebbe stato mitizzato nella memoria della città.
All’interno dei racconti assistiamo a una sovrapposizione continua tra l’io narrante e le vicende drammatiche dell’autrice, figlia di un matrimonio misto e presto orfana di madre, parallelismo che lei stessa rivendica. In particolare la figura della madre, morta giovanissima quando l’autrice era nella prima infanzia, si materializza a più riprese come un attore attivo nel libro.
Molta della nuova narrativa di autori sarajevesi trae spunto da un’esperienza eccezionale, quella del conflitto che nel giro di uno schioccare della dita vide Sarajevo trasformarsi in una nuova Stalingrado, isolata dal mondo ma sotto i riflettori del mondo.
Spesso la guerra viene descritta come uno spartiacque che divide un tempo mitizzato, gli anni ‘80, dalla guerra e dell’interminabile dopoguerra e ricorre la domanda fatidica: dove saremmo ora se la guerra non ci fosse stata? Nella narrazione di Lejla, invece, lo spartiacque è la morte della madre, un evento del quale la protagonista non ha memoria ma le cui conseguenze riaffiorano in ogni pagina del libro.
I genitori di Lejla erano due sarajevesi provenienti da una famiglia serba, la madre, da una famiglia musulmana, il padre. Un dualismo che passava inosservato ai tempi del loro matrimonio ma che il conflitto tentò di spazzare via solo un decennio dopo.
La morte della madre, l’eterea Snežana – Biancaneve se lo volessimo tradurre in italiano –, seppellita nella sezione degli atei del cimitero sarajevese di Bare, spezza questo equilibrio e simboleggia la prima tegola che va in pezzi. Va in pezzi anche la famiglia di Lejla, con il padre sempre più trascinato nel vortice dell’alcolismo.
L’esperienza del dualismo tra due poli identitari che si vanno costruendo mentre prima esistevano solo i cittadini di Sarajevo viene simboleggiata dalla doppia esperienza di profuga di Lejla: con i nonni materni a Šid, nella Serbia di Milošević, con i nonni paterni all’interno della Sarajevo assediata.
La presenza della madre rimane una costante in molti racconti che toccano a frammenti la parabola di vita della protagonista, senza sfuggire, anzi, tematizzando i suoi momenti più bui: la morte progressiva dei quattro nonni, l’ospedalizzazione in una clinica psichiatrica, gli ostacoli da affrontare nella relazione che la protagonista intreccia con una donna.
L’Esteban del titolo è solo uno dei molti riferimenti intertestuali che costellano il romanzo. In questo caso il riferimento è doppio: al figlio morto in un incidente del film di Almodovar “Tutto su mia madre” e all’Esteban, il “l’annegato più bello del mondo” di un noto racconto di Gabriel García Márquez, al quale vengono attribuiti dei genitori per non farlo seppellire da orfano.
Il gioco delle parti porta alla domanda tabù di ogni società, quella dei genitori che sopravvivono al figlio: e se fosse stata la madre a sopravvivere alla protagonista?
Partendo dalla triade morte–follia-sessualità, che l’autrice stessa riconosce alla base della propria opera, la raccolta di racconti di Kalamujic porta il lettore nel terreno oscuro del negato, di quello che viene marginalizzato. E se fosse proprio il riportarlo alla luce il segreto e la terapia?
Un consiglio di lettura per chi legge il serbo-croato-bosniaco, una speranza in una prossima traduzione in italiano per un pubblico di lettori più vasto.