di Andrea Rampini
BIR (bironlus.eu) è un’organizzazione attiva dal 1999 nel campo della cittadinanza e della cooperazione internazionale. Nell’estate del 2017, per la prima volta, i volontari dell’associazione hanno incontrato le ragazze e i ragazzi del centro detentivo per minori di Craiova, nel sud-ovest della Romania. Una settimana di sport, musica, giardinaggio e pittura, per dire ancora una volta che siamo tutte e tutti uguali, ci piace stare insieme e abbiamo molta voglia di essere liberi.
Varcare una soglia è anche questione di orecchio. Mentre ti avvicini c’è un silenzio teso, come sott’acqua, sospeso. Poi un’esplosione di suoni. Prima quelli più lontani, sullo sfondo, come una colonna sonora, poi quelli lì accanto. Prima quelli indefiniti e incomprensibili, poi le parole nitide che qualcuno ti sta rivolgendo.
Ha una figlia di tre anni e mezzo che vive a 500km e un giorno di viaggio da qui. Parlano al telefono, a volte ogni giorno, e anche su skype, a volte ogni settimana. Al telefono dice Torna a casa! Quando arrivi mami? E io dico Aspetta un po’, devo stare via per lavoro, torno presto, comportati bene con la nonna e con la zia. Quando esco, vado in Italia, però a nord. Puoi ricevere visite più o meno quando vuoi. Se viene a trovarti tuo figlio, accompagnato da qualche parente, c’è nell’edificio della scuola una stanza apposta per incontrarlo. Sul muro ci sono Biancaneve e altri personaggi gentili, un grande divano e un tappeto, un angolo con il tavolino delle costruzioni e dei disegni, poi tanti giochi. Se invece viene a trovarti un adulto la stanza che si usa è un’altra, dicono Niente di che, che forse vuole dire un po’ brutta. Da fuori possono venire spesso, possono telefonarti, possono videochiamarti, possono scriverti, possono mandarti soldi. Non sono severi sulle comunicazioni con l’esterno, non serve. Anche perché la maggior parte delle ragazze di visita non ne riceve nessuna.
Per uno che arriva da fuori in un posto difficile da capire accade a volte che le relazioni siano l’unico posto in cui sentirsi sicuri.
Come durante un’arrampicata, quando hai paure e poi finalmente trovi un appiglio. Come agganciare un moschettone all’anello conficcato su una parete esposta. Ti senti vulnerabile e fuori posto, non ti fidi del tuo equilibrio, ogni imprevisto ti sbilancia. Anche se il vento non è nulla di che e la pendenza poteva essere peggiore. Poi agganci il moschettone e dici Ok, sono viva, sono salvo, andiamo avanti. A un certo punto la conversazione finisce, qualcuno se ne va, qualcosa smette di funzionare, il gioco si interrompe. Ancora una volta manca un appiglio e ti viene paura del vuoto. E ancora una volta alla fine trovi un punto d’appoggio, una presa, un altro anello di metallo a cui agganciarti con cordino e moschettone. Ok, sono siamo salvi ancora, andiamo avanti. In questo appiglio non c’è quasi mai il motivo per cui sei lì, il reato commesso, la tua storia, la spinta per cui fai l’attivista o il luogo da cui sei partito. Ci sono solo le persone, c’è solo umanità. Condividere l’asfalto, a volte guardarsi, parole incerte, ridere spesso, capirsi un po’, riconoscersi subito.
Qualcuno non ci sta. Ti guarda strano e ti fa sentire piccolo, un po’ stupido o forse un po’ in colpa. Pensi a mille ragioni per cui potrebbe attaccarti, insultarti, giudicarti, magari pure odiarti. E le condividi tutte. Ma a fine pomeriggio ti dice di tornare. Ci piace quando venite. Ci vediamo domani. Mi spiace che parti, perché ci eravamo abituati. Una mano forte, a volte uno sguardo intenso, a volte un abbraccio.
La cosa più difficile non è accogliere né contenere chi arriva qui. Per tutto ci si attrezza, ci sono gli educatori, gli psicologi, gli agenti in divisa e quelli senza. Ci sono i regimi più severi e ci sono pure i farmaci. Non è difficile insegnare la fabbricazione di serramenti o gli imballaggi di cartone, non è difficile insegnare a fare i camerieri o le hostess. Ci sono i laboratori, la materia prima, gli istruttori, le commesse di lavoro. Non è difficile insegnare a scuola, dalla prima all’undicesima classe, forse la dodicesima se qualcuno quest’anno viene promosso. Il più bravo di tutti viene da una famiglia per bene, andava a scuola, pronto per fare carriera, poi ha ucciso suo padre. Ma potrebbe gestire un’intera biblioteca. La cosa più difficile non è neanche spiegare alle comunità che un autore di reato è una persona come le altre, mostrare l’umanità e magari il talento di ogni ragazza e ragazzo. Si organizzano spettacoli, uscite, gite, si cancella dal cv ogni traccia della tua storia carceraria.
No, la cosa più difficile è cambiare quello che senti, quello che pensi di te stesso.
È difficile spiegarlo ai tuoi genitori e ai tuoi fratelli e trovare anche tu un appiglio o un anello d’acciaio a cui tenerti agganciato. Quando esci di qui scoppia una bolla, torna il rumore, e ti giochi una nuova partita. Spesso la più dura, e spesso sei solo. E allora, ecco, la cosa più difficile è quando dopo un po’ li vedi ritornare qui dentro, proprio quando pensavi che finalmente avessero trovato un po’ di libertà.
Alcuni segni sulla pelle sembrano opere d’arte, altri sono operazioni culturali complesse. Come se a volte emergesse più il processo che il risultato, più l’intenzione del raccontare che la forma passeggera che ha preso il racconto. Lettere sulle falangi, nomi sulle braccia, simboli e raffigurazioni. Flo ha provato i colori, intingendo l’ago nell’inchiostro rosso, per aggiungere a un ritratto di persona una bella capigliatura di fuoco. La pelle impara in fretta a farsi cicatrice, e il segno che resta sembra raccontare una storia di formazione, non tanto di dolore. Come nei parti, pochi ti raccontano il dolore e molti vogliono solo farlo ancora. Osare, sperimentare, sbagliare, capire l’errore, riprovare. Alla fine il risultato migliora sensibilmente, ma la cosa strana è che l’evoluzione te la porti sempre dietro. La pagina non si cambia, è la stessa da quando sei nato, come fare il tema di maturità sul quaderno che hai comprato in prima elementare. Noi siamo pagine ordinate, come quando si scrive a computer. Abbiamo la fortuna di chi fa semplicemente sparire ogni errore di battitura, ogni bruttura da principianti, ogni sbavatura dell’inchiostro. Abbiamo lasciato ad altri il compito di segnarci la pelle, a qualcuno che lo sapeva fare davvero e che ci metteva tanta misura e meno passione. Mostrando i nostri tatuaggi alterniamo orgoglio e imbarazzo per le linee sottili, le sfumature delicate, le forme che sembrano stampate da una macchina. Ma quello l’hai fatto fuori? Dove? Fuori! Come fuori? Fuori, in libertà. Ah si, in libertà.
Il centro di detenzione di Craiova. Uno dei due carceri minorili della Romania, il primo ispirato da una nuova filosofia di giustizia minorile, il più grande di tutti, l’unico del paese ad avere una sezione femminile. Più di 250 dipendenti e altrettanti tra ragazze e ragazzi, 14 anni il più piccolo e 28 anni il più grande, che è grande il doppio, allora. Pena massima di 15 anni, se fai i calcoli potresti uscire di qui a trentatre anni.
A metà percorso se dimostri buone intenzioni puoi essere scarcerato, ma a Liviu dopo due anni su quattro hanno detto che doveva rimanere ancora per quattro mesi.
Quattro mesi può essere poco, ma poi può andare tutto avanti se qualcosa va storto. L’ultima evasione da questo istituto, loro dicono da Questa Unità, è stata nel 2007, o giù di lì. Le guardie non hanno opposto troppa resistenza, con un minore mica puoi rischiare, e comunque poi l’hanno ribeccato subito, in città, tipo in stazione. La cosa più strana non è chi prova a fuggire ma chi vuole rientrare, come Lavi che si è messa a vivere nel prato che sta sotto la finestra della sua cella, perché un altro posto dove andare proprio non le veniva in mente.
Fine giornata di un giorno qualunque. Uno di cinque, uno di un anno, uno di dieci anni. In tre, dieci anni per uno? O forse mi stai parlando di qualche altro dieci della tua vita? Spiegami che non ho capito. Meglio di no, è una cosa delicata. Certo, lo so, non mi sono spiegato. Cioè, non lo so e non mi sono spiegato. Lasciamo stare, scusa, è che non parlo bene.
Fine giornata e anche uscire per noi stranieri è questione di suoni. Scoppia una bolla, si torna in superficie, come uscire da una grotta a cui si poteva accedere solo da sott’acqua. E fuori c’è ancora quel silenzio di prima, ma è diventato diverso. Senza più sospensione né tensione, senza più attesa né mistero. Solo un po’ di voglia di gridare per riempire quel vuoto. A volte un po’ di voglia di piangere, ma poi passa.