Di Marta Bellingreri
Da due anni, Zuwara non è più la capitale delle partenze e dei traffici dei migranti in Libia. La spiaggia dei ritrovi con le famiglie e gli amici aveva già sotto Gheddafi una reputazione oscura, e quando le barche si rovesciavano, il mare portava a riva i corpi dei migranti. Due anni fa, quando hanno trovato sulla spiaggia i 160 corpi delle vittime del grande naufragio del 27 agosto 2015, i cittadini di Zuwara hanno deciso di dire basta. Oggi, con le loro associazioni di giovani sono un esempio dei piccoli, strenui tentativi di ricostruire una società civile mentre la Libia è in mano a militari, milizie e trafficanti.
La spiaggia della morte
Quando il cielo è sereno e non c’è foschia nella notte, dalle coste di Zuwara si vedono le luci delle navi che percorrono il tratto di Mar Mediterraneo più pericoloso e letale al mondo per i migranti. Ma quella spiaggia dalla sabbia fine, con l’acqua del mare blu cristallino, è innanzitutto uno dei principali luoghi di ritrovo delle famiglie e dei gruppi di amici di Zuwara. La popolazione della cittadina libica sulla costa è in maggioranza amazigh – come si chiamano i berberi di tutto il Nord Africa, dal Marocco alla Libia, passando per Algeria e Tunisia, che parlano tamazight, una lingua che varia leggermente a seconda delle zone dei paesi e delle influenze nei secoli. I cittadini di Zuwara sono abituati a trascorrere al mare le giornate del fine settimana o le serate al mare, soprattutto in primavera e d’estate. Bambini che giocano sulla sabbia di giorno, amici che bevono un caffè in riva al mare, col rumore lieve delle onde e un venticello piacevole sul far della sera. La costa della città di Zuwara, però, è legata anche all’ombra della morte che troppo spesso l’ha raggiunta.
“Siamo sempre rimasti turbati nel vedere arrivare cadaveri sulle nostre spiagge”, racconta Mohannad, 27 anni, nativo di Zuwara, “e siamo stanchi della reputazione negativa che ha la nostra città fin dai tempi di Gheddafi: vogliamo cambiarla”. Zuwara, infatti, per lungo tempo è stata il capoluogo dei traffici e delle partenze dei migranti e rifugiati verso l’Europa. Ma due anni fa qualcosa è cambiato. Ed è stato proprio Mohannad a compiere un primo passo, insieme ai suoi amici dell’associazione At-Wellol, dal nome che in lingua tamazight indica la popolazione di Zuwara.
I Masked Men
Era il 27 agosto 2015 quando, per l’ennesima volta, i corpi di centinaia di persone in viaggio, di diverse nazionalità africane, si riversavano sulle coste libiche di Zuwara. A fronte di 201 sopravvissuti, 160 corpi galleggiavano fino alla spiaggia, e 40 venivano trovati in fondo all’imbarcazione. Le associazioni della società civile di Zuwara decisero quindi di manifestare in pieno centro, mostrando le foto dei morti sulla spiaggia, per dire basta. “Basta alle morti in mare, basta dunque alle partenze illegali in mano a criminali”, dice Badis, 23 anni, anche lui di At-Wellol. “Erano questi i nostri slogan ed era questo il nostro obiettivo”. Perché, nonostante tanti altri traffici illeciti coinvolgano il confine libico-tunisino controllato dal Comune di Zuwara (la Greater Municipality of Zuwara, che comprende il territorio da Ras el-Jdir, il confine tunisino, fino a Mellitah, per 75 chilometri di costa) e lo stesso porto verso altri porti mediterranei, quello del traffico delle persone migranti ha sempre mostrato alla luce del sole il suo lato crudele. “Avevamo manifestato nel 2014 una prima volta, ma a questo secondo e più forte tentativo, ci sono state delle conseguenze e dei risultati”, ricorda ancora Mohannad.
Il Comune di Zuwara, infatti, per affrontare il problema, ha coinvolto i Masked Men, una milizia che non ama essere chiamata tale per non essere confusa con la miriade di milizie in Libia e che vorrebbe invece riportare un senso di ordine o di giustizia. I Masked Men, tra settembre e dicembre 2015, hanno arrestato in diverse operazioni di polizia 35 smugglers. La giornalista e ricercatrice Nancy Porsia opera un’importante distinzione tra passatori e trafficanti, ovvero tra quelli che organizzano, o meglio organizzavano, il passaggio per l’Europa, fornendo un servizio, e coloro che gestiscono il traffico di esseri umani, non solo in Libia ma a partire dei paesi di origine o di transito della grande maggioranza dei migranti e rifugiati, come l’Eritrea, il Sudan, la Nigeria, spesso contro la volontà o nell’inconsapevolezza delle persone. Nel caso dunque di Zuwara, gli arresti riguarderebbero più passatori (che finora ho definito col termine inglese smugglers) che trafficanti. In una prima fase sono stati trasferiti in prigioni delle città vicine, come Sabratah e Tripoli, e in seguito tenuti in un centro di detenzione a Zuwara, dove qualcuno tuttora si trova, in cella ma – secondo fonti affidabili sul posto – in buone condizioni.
I giovani fra impegno culturale, minacce e tentazioni
Mohannad e Badis, così come altri membri di At-Wellol e di un’altra associazione locale di nome Azref (“Diritti”) hanno sempre avuto una duplice preoccupazione: non solo fermare la strage di innocenti per mano di criminali che si arricchiscono alle spalle di migranti e rifugiati, ma anche arginare le conseguenze drammatiche per la popolazione locale, e l’influenza che il facile guadagno degli smugglers ha sui giovani di Zuwara e di altre città libiche. “In assenza di opportunità di lavoro, nonché di stabilità politica nel paese dove regnano le milizie in lotta per il controllo del territorio, molti nostri coetanei lasciano la scuola o gli studi per darsi ai traffici, portando così del denaro contante a casa”, denuncia Anis di Azref.
Le due associazioni hanno capito che per coltivare il loro desiderio di pace per la Libia, le armi restano le iniziative culturali, per esempio la rivitalizzazione, ormai anche all’università, della lingua e della cultura degli Amazigh, oggetto di forte discriminazione e repressione durante il regime di Gheddafi. Ogni due anni organizzano il Festival di Diversità Culturale e hanno abbellito tutte le rotonde della città, riempiendole di sculture e dipingendole di scritte arabe, amazigh e talvolta inglese per dare il benvenuto ai propri ospiti. Dal teatro alla lingua alla cucina: Azer Azabi, detto Tito, è il più bravo e paziente a cucinare il piatto tipico della zona di Zuwara, detto “Otsho”, sempre per accogliere gli ospiti dell’associazione e sedersi insieme a mangiare: “l’unica cosa degli Amazigh a cui neanche Gheddafi poteva rinunciare!” dice ironicamente Azer, riferendosi alle visite di un tempo del colonnello in città e alla fama culinaria di cui gode il piatto Amazigh in tutto il paese.
“Siamo un’associazione mista, fatta di giovani donne e uomini fra i venti e i trenta anni”, racconta Badis. “Abbiamo un gruppo di teatro molto attivo e a maggio lo spettacolo teatrale che ha vinto il nostro festival è stato quello che trattava il tema del matrimonio e le donne che spesso si sposano giovani per convenzione sociale. Vorremmo cambiare tante cose a Zuwara”. Proprio uno dei luoghi del teatro dell’associazione a maggio è stato incendiato nella notte da ignoti, probabilmente ostili al teatro e alle questioni di diritti e di genere, a riprova di come il lavoro di questi giovanissimi attivisti incontri ancora molti ostacoli.
Voglia di futuro
Negli ultimi due anni, le associazioni hanno provato a coinvolgere diversi migranti o rifugiati nelle loro attività, ma la maggior parte di loro sono occupati dal lavoro e dal desiderio di partire per l’Europa, sebbene a Zuwara abbiano trovato un luogo più sicuro dove stare. “In passato la nostra associazione Azref ha provato a fare un ‘passaporto’ speciale temporaneo per migranti e rifugiati che si erano stabiliti a Zuwara per dare loro una sorta di status legale”, racconta ancora Anis. “Ma purtroppo ci siamo accorti presto che migranti che si trovavano in altre città libiche venivano qua per ottenerlo e poi se ne andavano; così abbiamo dovuto interrompere questa pratica per evitare il diffondersi di documenti falsi in Libia”. E per lasciare la Libia, ormai da due anni, il luogo in cui recarsi è Sabratah, l’anello finale della catena del traffico prima del mare. Anche lì, di recente, dopo l’accordo con l’Italia per arrestare i flussi, il gruppo armato Brigata 48 ha bloccato le partenze, ma con intenzioni molto diverse da quelle dei cittadini di Zuwara.
“Il nostro esempio è un piccolo passo per implementare legalità e diritti umani in Libia. Ma i cittadini libici, se la situazione non cambia, saranno i primi a volersene andare!” afferma Mohannad, di fatto descrivendo quello che già accade. “È difficile avere un visto per uscire dalla Libia, ma noi vogliamo viaggiare, come hanno diritto di fare i migranti, e solo così possiamo portare più forza alla nostra città!”
Al confine sud dell’Europa, parla l’umanità e la voglia di futuro della Libia. Nello stesso periodo in cui solidarietà e soccorso in mare vengono criminalizzate in Europa, un membro del Comune di Zuwara ha definito le navi delle Ong di soccorso i “White Helmets” del Mediterraneo. Mentre affari e crimini continuano, le associazioni della società civile e i piccoli comuni che operano per la pace e la giustizia vogliono fermare le stragi per terra e per mare.
In copertina: Mappa della Greater Municipality di Zuwara all’Hospitality Palace della città (foto di Marta Bellingreri)