La storia di alcuni mutamenti sociali portati dalla guerra e dai suoi protagonisti fra la popolazione civile nelle campagne di Deir ez-Zor
di Alberto Savioli
G. è un placido villaggio rurale con abitazioni costruite in mattoni di fango cotti al sole, è adagiato sulle sponde del fiume Khabur, un affluente dell’Eufrate, circa 80 chilometri a nord di Deir ez-Zor. Dominano campi di cotone e granaglie, qui la popolazione beduina della tribù Aghedaat si è sedentarizzata all’inizio del secolo scorso. Tra alberi da frutto e stoppie gialle, greggi di pecore sollevano ancora nubi di polvere come un tempo, quando con Fawaz mi aggiravo tra i campi e i vicoli del villaggio.
Tuttavia qualche cosa è cambiato, nelle foto che gli amici mi mandano sono scomparsi gli abiti multicolori delle donne, anzi, sono scomparse le donne ora segregate in casa o coperte da pesanti abiti neri, e i ragazzi portano barbe e capelli lunghi; in qualche foto compare anche la bandiera di daesh (Stato Islamico).
Quest’angolo di Jazirah “l’isola” (i territori siriani del nord-est e dell’est), nella prima fase della “primavera araba siriana” (2011) era rimasto distante dalle problematiche rivoluzionarie. I beduini conducevano il loro stile di vita come sempre, la rivoluzione sembrava essere una questione per intellettuali, oppositori politici, studenti, salafiti di città e per quella classe di nuovi poveri che si erano stabiliti nelle periferie dei grandi centri urbani alla ricerca di migliori condizioni di vita e lavoro. In questa prima fase la Jazirah sonnecchiava. Il suo risveglio sarà ancora più traumatico perché è in questi territori che si è incistato il “morbo nero” dell’estremismo religioso dello Stato Islamico.
Tra le analisi fatte sul conflitto siriano sono stati sottolineati diversi aspetti, spicca l’elemento confessionale e l’elemento esterno (jihadismo e coinvolgimento delle potenze regionali), ma sono poco considerate sono le dinamiche tribali. Le tribù in questi territori sono state fagocitate dallo Stato Islamico, nonostante abbiano tentato più volte di ribellarsi.
Se lo si vuole davvero sconfiggere, non solo militarmente, ma a partire dagli elementi ideologici che lo hanno portato successo, non possiamo non prendere in considerazione le tribù che vivono in quei territori e che non ne condividono l’ideologia, pur appartenendo allo stesso ramo sunnita dell’Islam.
La ribellione della Jazirah (a maggioranza sunnita) al regime siriano arriva tardivamente, quando le proteste di piazza sono diventate ormai una rivolta armata e quando all’Esercito siriano libero si sono affiancati gruppi salafiti e di ispirazione qaidista.
Al-Qa’ida aveva fatto la sua comparsa a G. al tempo della guerra irachena, quando gruppi di jihadisti sunniti erano stati incoraggiati dal regime siriano ad andare in Iraq per combattere gli Stati Uniti e impantanarli in una guerra lunga. Lo zio di Fawaz, Abu Omar, era stato un qaidista della prima ora, di ritorno dall’Iraq venne arrestato dal mukhabarat siriano e dal 2005 era detenuto nella prigione di Adra (Damasco).
Sempre nel 2005 anche ad Abu Khalil era toccata una sorte analoga.Mentre passeggiavo nei campi di G., una volta incontrai Abu Khalil. Era diventato intransigente ed intollerante.
Era molto pio, si era fatto crescere una lunga barba, non indossava più gli abiti occidentali ma solo la jallabiyah e l’abaya portate “alla moda dei chierici”. Ogni frase era infarcita di invocazioni a Dio, ma a quel Dio assoluto che non lascia spazio all’alterità e che sfocia nell’intolleranza religiosa. Scherzando gli dissi: “Dov’è finito lo sheikh?”. Abbassando la voce mi prese a braccetto e mi disse: “Non è bene parlare di queste cose”. Mi raccontò quanto gli era accaduto: “I miei discorsi sono finiti alle orecchie di chi non doveva sentirli, il mukhabarat è venuto al villaggio e ha arrestato me e altri amici, ma noi non facevamo male a nessuno, è una colpa pregare Dio? Ci hanno portato a Damasco e ci hanno tenuto in prigione per quattro mesi, ci hanno picchiato in ogni modo”.
Mentre bevevo il tè con amici del villaggio, mi raccontarono che la versione di Abu Khalil non era esatta: “Lui e il suo gruppo hanno cominciato da qualche anno a farsi crescere le barbe e a vestire i thob alla moda saudita al posto delle jallabiyeh beduine, fanno discorsi strani”. Il più anziano e pacato, Hassan, mi spiegò in cosa consistevano i “discorsi strani”: “Si sono costruiti una moschea, non vengono a pregare assieme a tutti noi nella moschea del villaggio. Dicono che ricevono soldi dall’Arabia Saudita ma non lo sappiamo, a volte si riuniscono con dei chierici sauditi, una volta presenti tutti noi qui, ci hanno detto: Ora siamo in pochi e non ci considerate, ma quando saremo di più comanderemo noi, e quando avremo le armi vi ammazzeremo se non ci seguirete”.
Allora questi soggetti erano definiti semplicemente dei “matti” con strane idee, avevano avuto una conversione che li aveva spinti verso un estremismo incomprensibile per gli stessi compaesani.
Tra il 2012 e il 2014 la “marea nera” delle bandiere nere dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) si riversa sulla Siria conquistano tutto l’est del paese e sottraendo una grande porzione di territorio che era stato conquistato dalle molteplici sigle ribelli. Nel febbraio 2014 l’Isis si rende autonomo da al-Qaʻida. Il 29 giugno 2014 Abu Bakr al-Baghdadi annuncia la nascita dello Stato islamico e si autoproclama califfo con il nome di Ibrahim.
Tuttavia, a fine dicembre 2013, tre potenti alleanze di gruppi ribelli avevano tentato una grande offensiva contro l’Isis, gli attivisti l’avevano nominata la “seconda rivoluzione”.
Anche i miei amici della tribù Aghedeaat di G. erano impegnati in quest’offensiva contro l’Isis.
Nel dicembre 2014 presso il villaggio di Margada, si fronteggiavano i due schieramenti, da una parte sventolavano le bandiere nere con il cartiglio di Muhammad di quello che nel frattempo era diventato Stato islamico (Is), dall’altra gli stendardi di diversi colori delle sigle ribelli e salafite come la Katiba Jafar Tayyar, la Hamza, Ahrar ash-Sham e Jabhat al-Nusra, di cui nel frattempo Abu Khalil era diventato un importante comandante militare locale, capo di un battaglione di 300 uomini.
Le tribù della zona si erano divise nel sostegno a daesh o alle sigle ribelli, in una dinamica di convenienza locale propria della frazioni tribali, con lo Stato islamico c’era la frazione al-Bukheir della tribù Aghedaat, gli al-Bu Izzeddine.
Divise tra daesh e ribelli c’era la frazione al-Buleyl della tribù Anezeh e la frazione Mushalba della tribù Aghedaat, mentre con i ribelli c’erano i Bu Chamel di G. (Aghedaat), la frazione Mujadma della tribù Obeid e i Baggara.
Le tribù a Margadah avevano compreso cosa le aspettava alla vittoria dello Stato islamico, a Deir ez-Zor la frazione tribale al-Sheitaat (Aghedaat) che si era opposta a daesh era stata punita. Nell’agosto 2014, in un solo giorno, 300 uomini del clan al-Sheitaat vennero giustiziati in una fossa dagli uomini dello Stato Islamico (furono 700 i morti Sheitaat nel mese di agosto), l’intero clan venne cacciato dalle proprie case e dai terreni che possedeva. In un videomessaggio lo sceicco del clan, Rafaa Aakla al-Raju, invitava le tribù della zona ad unirsi nella lotta contro daesh: “Facciamo appello alle altre tribù per unirsi a noi, perché poi sarà il loro turno (…)”.
In quei giorni lo sceicco della tribù Dulaim della provincia di Anbar, Ali Hatem al-Suleiman, richiamava tutte le tribù alla lotta contro lo Stato islamico: “A daesh non può essere permesso di diventare uno strumento per vendicare le ingiustizie dei sunniti perché prima o poi daesh brutalizzerà anche i sunniti”.
Questa diga di Margadah a base tribale, contro la forza dirompente dello Stato islamico era riuscita ad uccidere 600 uomini dell’Is, ma aveva resistito solo quattro mesi, fino all’aprile 2015. Le tribù alleate con l’Esercito siriano libero e i gruppi salafiti erano state cacciate dai villaggi e allontanate nella steppa arida.
Agli uomini catturati venne tagliata la testa, fu concesso di ritornare ai villaggi solo ad anziani, donne e bambini. I combattenti sconfitti avevano abbandonato la Jazirah per raggiungere le campagne di Aleppo e Idlib.
Qui Abu Khalil nel 2016 è diventato un emiro di Jabhat al-Nusra e i suoi miliziani lo chiamano Abu Yacoub. Un amico che lo incontrò nell’aprile 2016 mi disse, “Abu Khalil ti saluta”, e mi spedì poi una fotografia di quell’incontro. Entrambi sorridevano sotto al vessillo nero di Jabhat al-Nusrah, Ibrahim aveva una lunga barba e puntava il dito indice nella mia direzione, stava facendo il gesto della tashahhud ma a me sembrava un gesto inquisitorio nei miei confronti e mi creava un senso di inquietudine.
I due più cari amici che avevo a G. hanno avuto sorti diverse. Abu Ahmed che aveva combattuto nei clan tribali contro lo Stato Islamico. Poi era stato cacciato ed era tornato a fare il pastore, viveva in un’abitazione improvvisata e in condizioni misere con la moglie e i suoi cinque figli. Poi, mentre tentava di fuggire era stato catturato dagli uomini di daesh che lo avevano arrestato, rimase detenuto in una prigione di Raqqa. Dopo qualche mese, per un episodio fortuito, aveva riassaporato la libertà ed era riuscito a scappare in Turchia.
Fawaz invece era restio a combattere e nonostante fosse refrattario all’ideologia estremista dello Stato islamico, aveva tentato di sopravvivere facendo affari con i nuovi padroni della Jazirah. Gli amici mi raccontavano che tutto era controllato dal Califfato, dai panifici, ai negozi, alla distribuzione di gas e diesel per non parlare della telefonia mobile; vigevano dei prezzi imposti, ogni 30 ovini ne veniva preso uno come tassa, ogni 100 sacchi di grano ne venivano trattenuti cinque.
Fawaz si era recato alla sede locale dello Stato islamico e si era giocato la sua carta per sopravvivere nella nuova realtà. Un suo parente, Abu Omar, aveva combattuto per al-Qa’ida in Iraq, ai funzionari dello Stato Islamico il suo nome era noto.
Fawaz aveva raccontato che il camion di sua proprietà era il camion di Abu Omar e in segno di riconoscenza gli era stato dato immediatamente un lavoro, diventando trasportatore di nafta.
Altri ragazzi del villaggio che conoscevo si sono arruolati nei ranghi dello Stato Islamico e qualcuno è morto combattendo. Eppure il mio amico Abu Ahmed, ora rifugiato in Francia, mi dice che i sostenitori del Califfato sono la minoranza: “Molti lo fanno per convenienza o perché non hanno alternative. Quando hai un fucile puntato alla tempia fai quello che ti dicono di fare”.
Solo dieci famiglie di G. su 500 hanno aderito all’ideologia estremista di daesh. I nuovi padroni di quest’angolo di Jazirah sono quasi tutti stranieri, mi racconta. Vengono dal Maghreb, dalla Tunisia, dalla Libia, dall’Iraq, dal Libano e dall’Arabia Saudita. Ci sono ceceni e anche curdi iracheni.
La vita sotto daesh è ingiusta anche per gli stessi abitanti sunniti, racconta Abu Ahmed: “Un uomo povero del villaggio aveva concesso la propria figlia in moglie ad un combattente siriano di daesh a Mayadin, questo dopo averla sposata, l’aveva data ad altri sette miliziani che si erano divertiti con la ragazza, rimasta incinta di non si sa di chi dei sette”.
Racconti analoghi circolano in altri villaggi. Alle povere ragazze yazide, rapite sul Jebel Sinjar o di Bashiqah (Iraq) era toccata una sorte peggiore, vendute come schiave nei diversi mercati. “Ricordi Abu Sattam?”, mi chiede Abu Omar. Parla di un anziano uomo di Saadeh, “Ha comperato tre ragazze yazide a Sheddadeh per 200 dollari l’una, e poi le ha rivendute ad alcuni miliziani di Abu Kamal e Mayadin”.
Per gli Aghedaat di G., come il mio amico Fawaz, che hanno collaborato con lo Stato Islamico per convinzione, convenienza oppure per opportunità o mancanza di alternativa, arriveranno tempi ancora più bui quando cesseranno di sventolare le bandiere nere.
Il conto non sarà presentato loro da chi prenderà questi territori sunniti e tribali, siano le Forze democratiche siriane (Sdf) a maggioranza curda e sostenute dagli Usa, o l’Esercito siriano con le varie milizie sciite sostenuto dai russi. Ma dagli uomini degli stessi clan tribali che allo Stato Islamico si erano opposti.
In questi giorni, in cui la morsa si sta stringendo attorno ai territori del Califfato, lo Stato islamico sta arruolando tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 30 anni. Molti di loro scappano verso Hassakah per non essere arruolati. Qui, visti con sospetto dalle milizie curde dell’Ypg vengono presi e messi in campi profughi lontano dai centri abitati.
Abu Ahmed mi ha confessato: “Chiunque conquisterà Deir ez-Zor e la Jazirah per noi sarà una sconfitta. Sia le milizie curde dell’Ypg, sia le milizie sciite alleate di Damasco guardano con sospetto a noi arabi sunniti, ci considerano tutti sostenitori di daesh. Chiunque vinca per noi la vita sarà come al tempo di daesh”.
Vale ancora oggi quanto ha scritto nel 2014 l’esperto di affari tribali Haian Dukhan che conobbi a Palmira: “Le tribù vedono che l’Iran sostiene un regime confessionale a Damasco e a Baghdad. Devono scegliere il male minore tra i due mali. (…) per molti l’Isis rappresenta un’alleanza di convenienza per il momento attuale, finché non vedranno che un governo a Damasco tiene conto delle loro necessità. (…) Le tribù temono che una volta tornato a controllare il Paese, il governo si vendicherà contro di loro”.
La sconfitta dello Stato islamico passa anche attraverso il venire meno delle condizioni ideologiche, ma anche politiche, che hanno reso possibile la sua ascesa.