In una Tunisia su cui incombono le ombre della restaurazione, il 13 settembre la legge di riconciliazione amministrativa per l’amnistia dei funzionari corrotti durante la dittatura
Di Clara Capelli
Questa è una storia di lotta tenace, una fra le tante della Tunisia post-2011, ma che difficilmente trova posto fra i media della sponda nord del Mediterraneo. Il 13 settembre, dopo oltre due anni di dibattiti e manifestazioni, il Parlamento tunisino ha approvato con 117 voti a favore la legge per “la riconciliazione amministrativa” per il condono di reati economici commessi dalla funzione pubblica durante il regime di Ben Ali.
La seduta si è svolta in un acceso clima di proteste da parte dell’opposizione, che ha inoltre contestato il fatto che non sia atteso il parere di costituzionalità da parte del Consiglio Superiore della Magistratura (ancora incaricata di fare le voci della Corte Costituzionale, non ancora in funzione). A detta di molti questa giornata ha segnato l’ennesima tappa di un processo di restaurazione politica invisibile agli occhi di troppi, in Tunisia come in Europa.
Pubblicato da Al Bawsala su Mercoledì 13 settembre 2017
Si racconta della Tunisia che con la “rivoluzione dei gelsomini” (espressione generalmente invisa ai tunisini) caccia il dittatore e rivendica la sua libertà, rimanendo però scoperta e vulnerabile di fronte all’oscurantismo islamico.
Si dimentica tuttavia che l’epicentro delle rivolte sono state le regioni dell’interno, deliberatamente marginalizzate per decenni e decenni da una politica che ha sottratto risorse per destinarlo unicamente allo sviluppo di alcuni poli urbani lungo la cosa del Paese.
Le lotte che in questi anni hanno avuto luogo in Kasserine, Sidi Bouzid, Jendouba, Thala, Jemna, Tatouine, Kerkennah, Kebili (eccetera eccetera eccetera) sono state ignorate oppure peggio ancora liquidate come reazioni irresponsabili da parte di lavoratori e disoccupati che compromettono la stabilità del Paese e ne guastano il clima degli affari.
E nel nome del miglioramento del clima degli affari, il Presidente della Repubblica Béji Caïd Essebsi ha annunciato del 2015 la sua proposta di una legge di “riconciliazione economica” che avrebbe reso possibile un’amnistia per funzionari e uomini d’affari accusati di corruzione e atti economici illeciti prima della Rivoluzione.
Gli stessi che – è bene precisarlo, perché la rimozione di un dittatore non sana ferite di decenni – hanno abbondantemente lucrato fra le maglie di un sistema autocratico che ha creato profondissime distorsioni economiche, dalle acute disparità regionali alla debolezza produttiva fino alla dipendenza dai capitali stranieri e l’elevata disoccupazione strutturale.
Oltre al fatto di volere cancellare con un colpo di spugna gravi responsabilità, la legge è riconosciuta da molti osservatori come un neanche troppo celato tentativo di sottrarre competenze dall’Istanza di Verità e Giustizia (IVD), la commissione incaricata delle documentazione e delle riparazioni delle vittime nel periodo compreso tra il 1955 (un anno prima l’indipendenza della Tunisia dalla Francia) al 2013, compresi i crimini economici legati a espropriazione, marginalizzazione regionale, corruzione, etc.
Sgradita al partito Nidaa Tunes – composto da elementi del passato autocratico del Paese, ma spesso impropriamente descritto come formazione politica laica – l’IVD ha tra difficoltà esterne e interne lavorato per l’elaborazione di un processo che andasse oltre l’elemento puramente inquisitivo e giudiziale per provare davvero a sradicare le cause profonde dei compositi meccanismi di ingiustizia in Tunisia in un importante esercizio di restituzione della memoria.
La legge di riconciliazione si concentra invece sul mero condono dei crimini economici senza intervenire sulla complessità del sistema, mentre in Tunisia nuovi e vecchi interessi economici si scontrano e si riarticolano dopo lo sfaldamento dell’impero economico di Ben Ali e dei congiunti della moglie Leyla Trabelsi.
In questa storia rimasta troppo spesso confinata al dibattito più specializzato degli addetti ai lavori, si inserisce il determinato lavoro di resistenza fatto dalla società civile dal 2015 a oggi per contrastare la legge, in particolare attraverso il movimento Manish Msamah (“io non perdono” in arabo tunisino). Per oltre due anni Manish Msamah ha organizzato manifestazioni e iniziative contro la riconciliazione economica fino alle mobilitazioni della primavera 2017 che a Tunisi hanno visto una larghissima partecipazione.
L’ostinazione di queste proteste – completamente ignorate dai media italiani, così come è stato per il processo di giustizia transizionale – ha sicuramente contribuito a una sensibile revisione della legge, che ora disciplina solo i casi di funzionari (diventando quindi sono “riconciliazione amministrativa” per reati di malagestione delle risorse pubbliche, appropriazione indebita e corruzione) e non quello degli uomini d’affari.
Si consolida in Tunisia un clima di silenzioso e progressivo riequilibrio dell’assetto di potere fra accordi partitici tra Nidaa ed Ennahda (il partito dell’Islam politico, con cui Nidaa è in coalizione di governo e che economicamente si appoggia su un’agenda basata su politiche favorevoli al libero mercato e agli investimenti stranieri), come bene spiega Patrizia Mancini per Tunisia in Red, e scivolamento verso un approccio maggiormente presidenzialista che svuota a poco a poco di prerogative la funzione legislativa del Parlamento.
La partita, tuttavia, rimane aperta rispetto alla futura configurazione dell’opposizione, in particolare rispetto a come Manish Msamah e il popolo degli indignati si organizzeranno dopo la prima reazione di strada di questi ultimi giorni, punto preso in considerazione da Lorenzo Fe su Global Project.
Alla Tunisia, e a chi di Tunisia si occupa con passione e dedizione da anni, resta il compito di raccontare anche queste storie, integrando i giusti compiacimenti per la recente approvazione della legge sulla violenza contro le donne o l’abolizione della “circulaire 73” – avvenuta il 14 settembre, con una tempistica assai poco casuale – , la quale vietava il matrimonio tra una musulmana e un non-musulmano (di fatto dando vita negli anni a una serie di conversioni di facciata).
Traguardi importanti, ma che non devono oscurare la preoccupante situazione socio-economica, specialmente in merito alla questione del lavoro, né le tante resistenze che la Tunisia produce perché la sua storia sia davvero una storia di rivendicazione e costruzione di dignità, non una serie di misure per pochi affaristi, abbellite da politiche che piacciono ai distratti osservatori europei.
“La rivoluzione non si ruba” si diceva questa primavera a Tunisi. Raccontare che anche questo accade è un modo, sebbene modesto, per onorare tale proposito.