Le forze centrifughe e centripete dell’Italia di provincia
di Marcello Sacco
La nuda cronaca è nota: il 3 settembre scorso scompare dal suo paesino nei pressi del capo di Leuca, Specchia (LE), una ragazza di soli sedici anni, Noemi Durini.
Dopo dieci giorni di ricerche, il suo fidanzato – la cui identità non viene resa nota perché diciassettenne, anche se tutti sappiamo nome e cognome e l’abbiamo visto uscire dalla caserma dei Carabinieri facendo le linguacce come Mick Jagger – confessa di averla ammazzata e conduce gli inquirenti sul luogo dove ha nascosto il cadavere.
Questo, però, non è un reportage di un inviato speciale sui luoghi del delitto e nemmeno un articolo scritto salendo in cattedra sol perché chi scrive conosce bene quella terra.
Da quelle parti ci è nato, ma Specchia è lontana dal capoluogo e chi scrive sa di non sapere, perché troppo spesso certi borghi salentini si attraversano di corsa, nella calura estiva, diretti senza indugi verso il mare.
Chi scrive ricorda solo di aver dato, lì a Specchia nel secolo scorso, delle lezioni di chitarra in un corso accelerato per adolescenti forse impazienti di imparare pochi accordi e correre a cantare sulla spiaggia. I protagonisti di questa tragedia sono così giovani che potrebbero essere figli di quei ragazzi che imparavano a corteggiare con i suoni.
Il maestro di chitarra, invece, poco più che adolescente, metteva da parte i soldini per scappare all’estero. La provincia è così, vive di queste forze centripete e centrifughe. L’hanno descritta tanta letteratura, tanto cinema e una canzone di Lucio Dalla, Anna e Marco: “Poi c’è qualcuno che trova una moto e si può andare in città”.
Questi tragici “Anna e Marco” di Specchia, pur minorenni, giravano in macchina, e lui avrebbe svoltato in un uliveto buio per consumare il delitto.
Non l’hanno raccontata altrettanto bene, quella provincia, i giornalisti e gli opinionisti che mi è capitato di leggere in questi giorni. Non quelli ufficiali, sulle testate famose; né gli ufficiosi, gli scoliasti dei social network.
Saltando a piè pari l’ormai immortale video di Chi l’ha visto, candidato di peso al Pulitzer della monnezza, la maggior parte ha, per cominciare, sotterrato troppo presto nell’uliveto del misfatto la presunzione d’innocenza, che dovrebbe valere anche per un reo confesso, dato che proprio qualche anno fa e qualche chilometro più a nord, ad Avetrana, avevamo imparato che una confessione può servire a nascondere qualcuno o qualcosa d’altro.
Tuttavia, man mano che il tempo passa, i dubbi sulla reale colpevolezza del giovane sembrano poter essere solo completati da ulteriori elementi, ma non fugati. Le cose più gravi, dopo la tragedia di una vita spezzata per sempre, sono altre.
Mentre non facciamo che ripetere come un mantra – a ogni strage di Parigi, Londra, Bruxelles… – che il terrorismo non cambierà il nostro stile di vita (anche perché si tratterebbe di rinunciare al sacro sabato in discoteca), caschiamo come pere cotte a ogni notizia di cronaca nera e, con tutte le buone intenzioni di questo mondo, sembriamo disposti a buttare alle ortiche una lunga tradizione di cultura giuridica e di convivenza civile.
In questi giorni abbiamo letto giornalisti che, come in una canzonetta di due accordi veloci, hanno riattaccato la solita solfa sull’indifferenza dell’ameno paesello, che non avrebbe collaborato al momento giusto.
Il Paese maiuscolo, invece, la nazione intera, che fino a un attimo prima ribolliva e bollava come provvedimento fascista l’obbligo del vaccino antipolio (il famigerato “Tso della Lorenzin”), all’improvviso trovava insufficienti e leggerini i tre Tso psichiatrici somministrati in pochi mesi all’adolescente inquieto.
Ma il grande imputato espiatorio in questo rito collettivo è lo Stato, sempre reo, proprio come il paesello sonnolento, di non essere intervenuto tempestivamente. La giustizia, si sa, ha tempi lunghi. Ma qualche volta possiamo auspicare che continuino a essere moderatamente lunghi e che gli addetti ai lavori avanzino con i piedi di piombo?
Altrimenti qualcuno ci deve spiegare per bene quale sarebbe la tempistica giusta per capire che un teppista sta per diventare assassino. A sedici o diciassette anni la cronaca di una morte è sempre tutt’altro che annunciata e non vedo soluzioni facili all’orizzonte, se si esclude un improbabile ergastolo preventivo a sorteggio per i casi più sospetti. Ma l’Italia è così: ci guardiamo bene dal costruire case antisismiche, però poi vorremmo sapere l’ora e il punto esatti del terremoto, per procedere a evacuazioni di massa.
E il provvedimento dei servizi sociali per evacuare la ragazza e prendersela in carico era già partito, ma è arrivato come una beffa tre giorni dopo la scomparsa. Ora il ministro della Giustizia ha inviato gli ispettori a valutare eventuali ritardi colposi nell’azione della Procura.
Misura quasi inevitabile, vista la gravità del gesto e l’emozione mediatica scatenata; però oserei temere che, la prossima volta, alla prima denuncia, il magistrato chieda una lobotomia preventiva del fanciullo solo per evitare noie con gli ispettori.
Siamo nella fantascienza giuridica? Può darsi, ma in Italia la legislazione a qualcuno piace calda, cioè emergenziale.
E rema in quella direzione. Su Rainews, anche nel lontano Paese dove l’improbabile maestro accelerato di chitarra si è nel frattempo trasferito, si è vista e udita un’intervista alla penalista Giulia Bongiorno.
Proponeva, lei che con le date ci sa fare, di abbassare la soglia della maggiore età per la responsabilità penale. Ciò significherebbe che i ragazzini in Italia non potranno votare e, se sono figli di senegalesi o marocchini, non avranno lo ius soli, però se delinquono valgono come maggiorenni.
Più ergastolo per tutti e a partire dai sedici anni! Inoltre – proponeva ancora l’avvocata di Andreotti nel famoso processo per mafia risolto con la prescrizione – bisogna introdurre al più presto nel codice l’aggravante del “femminicidio”, spiegando (a chi non l’avesse capito) che funzionerebbe come corrispettivo della vecchia attenuante del delitto d’onore, ma in senso opposto.
Ossia l’Italia ristabilirebbe una norma abnorme come quella che quasi scagionava l’uxoricida, stavolta però in chiave di aggravante di genere, facendo così pesare sul codice l’assassinio di una donna più dell’assassinio di un uomo. Una robetta che, a naso, puzza di incostituzionalità.
Resta intanto la nuda cronaca di chi lavora in silenzio tra le farneticazioni a caldo. Il codice già prevede aggravanti come la “crudeltà” e i “futili motivi”, che non a caso il pm ha contestato all’indagato insieme all’accusa di premeditazione.
Resta il timore che ciò che non faranno i barbari dell’Isis potrebbero farlo in Italia i Barberini del Foro, cambiando il nostro stile di vita e la nostra cultura giuridica. Naturalmente, se il femminicida potrà permettersi la Bongiorno come difensore, potrà anche dimostrare che la moglie lui l’ha odiata, sì, ma solo fino al 1980. Uomini che amano le avvocate.