Racconto POP

 

Un racconto di Federico Gaudimundo

Ronchi – Gennaio 2017

 

Primi giorni dell’anno.

Il mare d’inverno

Con gli amici di una vita.

Tra i 40 e 50 anni.

 

Praticamente un invito alla “serata di gala” dei bilanci personali. La “notte degli Oscar” della riflessione personale. Il Grande Freddo in salsa toscana.

E dunque ho sommato le mie inquietudini al contesto fertile e mi sono gettato nella mischia.

In fondo era una bella occasione. Eravamo tutti in quella terra di mezzo, anch’essa popolata di fantasmi, orchi ed elfi, in cui da un lato devi capire cosa ti resta da fare e dall’altro se quello che hai fatto è abbastanza, per te e per gli altri.

Ma principalmente per te.

E questa nostra è una generazione che tendenzialmente non scioglie mai questo dubbio, compiaciuta del privilegio di poterselo porre. Vai tu a sapere se sia veramente un privilegio, poi.

Questa domanda però, in quei giorni luminosi e secchi, non ce la siamo posta troppo direttamente. L’abbiamo lasciata sottesa tra un ricordo del liceo e l’evocazione di vecchi amori che apparentemente rende tutto più leggero.

Il problema mio è che queste serate finiscono sempre per inquietarmi un po’ e la mia inquietudine si trasforma sovente in poche ore di sonno, così di buon mattino ho trovato il modo provare a placarla con una bella passeggiata sulla spiaggia.

“Il Mare d’Inverno è un concetto

che il pensiero non considera”

Il Mare d’inverno – 1983 – Loredana Bertè

 

Mentre ero lì che guardavo il mare con la faccia di uno che guarda il mare, ecco che compare un uomo, imbacuccato quasi fosse uno sciatore: giacca a vento, pantaloni da neve, cappuccio sulla testa e sciarpa sul viso.

Si vedevano solo gli occhi.

Erano occhi di qualcuno nella terra di mezzo.

Ma, al di là dell’abbigliamento bizzarro, la cosa che mi ha incuriosito era il fatto che impugnasse un metal detector come quelli dei film, proprio come quelli lì, uguale uguale.

Così, incuriosito, mi sono fermato a osservarlo setacciare ogni centimetro di spiaggia con meticolosità e rigore scientifico, quasi avesse diviso lo spazio in una griglia immaginaria così da non trascurarne nemmeno un centimetro.

Ogni tanto si fermava, raccoglieva qualcosa da terra per poi disfarsene dopo una rapida verifica.

Non sembrava una ricerca generica di oggetti di valore. Sembrava cercasse qualcosa in particolare.

L’ho studiato per un po’ cercando di cogliere il senso di quella curiosa ricerca.

“viene qui tutti i giorni, scandaglia un pezzo di spiaggia e se ne va. Il giorno dopo torna e si fa un altro pezzo. L’è mica tanto sano eh…”

Il mio sguardo rapito aveva evidentemente impietosito il mio occasionale compagno di passeggiata, di cui non mi ero nemmeno accorto.

“Lei lo conosce?”

“So chi è. Vive qui da sempre, dicono che sia andato fuori di testa quando la moglie lo ha lasciato. Ma di voci se ne senton tante nei paesi…”

Rientrato a casa, un po’ turbato, mi sono chiesto se esista un metal detector in grado di identificare quanto hai perduto nel tempo, nei ricordi, dentro di te.

Certo la morte o l’assenza, di qualsiasi natura sia, porta sempre dolore: quella di una persona cara, di un maestro, di un idolo, di un amore o di un pezzo di sé. E lascia sempre la stessa domanda senza risposta. Tuttavia, magari è solo un modo per fare spazio ad altro.

 

Ma quello che hai perso facendo spazio, che fine fa?

 

“Il loro amore moriva
come quello di tutti
con le parole che ognuno sa a memoria”

Il Dilemma – 1982 – Giorgio Gaber 

Ho lasciato morire questi pensieri, lasciando spazio alle facezie della serata.

Poi però mi è tornata in mente una frase che uno di quegli amori passati ricordati la sera precedente, mi disse in uno di quegli attimi che paiono irripetibili: “Amore, promettimi che qualsiasi cosa succeda, non ci dimenticheremo mai di questo momento”.

Mentii, principalmente a me stesso, facendo quella promessa.

Se ripesco nella memoria, so descrivere esattamente i motivi della fine delle mie storie d’amore.

Riesco perfettamente a rievocare il senso di disperata solitudine che ho provato in alcune occasioni, quando ho perso la capacità di ascoltare chi mi stava accanto e soprattutto ho ignorato l’urgenza di farmi ascoltare.

So anche, perfettamente, perché mi sono innamorato, ogni volta.

Ma non riesco a dire che fine abbia fatto quella sensazione peculiare, precisa che ti coglie in determinati momenti e definisce l’essenza ultima dell’amore che provi per quella determinata persona e non per ciò che rappresenta.

Ma è possibile trattenere o recuperare in qualche modo quelle sensazioni perdute? Esiste un segreto, un trucco?

Perché, mentre è facile richiamare alla memoria e all’anima la precisa sensazione di gioia o di dolore legata a particolari momenti, non riesco a riprodurre in modo identico e preciso quello che definiva il preciso amare di quella donna differente da tutte le altre?

O tutto finisce per essere un modo di procedere per tentativi ed errore?

 

“C’è un giorno che ci siamo perduti
Come smarrire un anello in un prato
E c’era tutto un programma futuro
Che non abbiamo avverato”

C’è tempo – 2003 – Ivano Fossati

 

Il giorno successivo, ancora di buon mattino, ancora sveglio prima dei miei compagni di viaggio, ho di nuovo pensato che una passeggiata sul mare potesse diradare i tormenti capziosi dei miei pensieri.

Ho rivisto quell’uomo sulla spiaggia, nuovamente imbacuccato come il giorno prima, scandagliare con maniacale precisione un tratto di spiaggia differente da quello del giorno precedente.

“Ma cosa cerca?”, ho chiesto al solito sconosciuto compagno di passeggiata.

“ ’un si sa ….”

Mi sono immaginato che forse il segreto fosse quello. Forse dobbiamo legare quei momenti a un oggetto, reale, tangibile. Qualcosa che ci ancori a quelle sensazioni che altrimenti perdiamo irrimediabilmente.

Forse quell’uomo che cerca con tanta abnegazione qualcosa su una spiaggia, mi sta indicando una strada, mi sta svelando qualcosa a cui non ero ancora arrivato. Forse sta cercando anche lui il modo di recuperare qualcosa che aveva lasciato andare per fare spazio ad altro.

 

Ma ora, forse, quello spazio vuoto non è più sopportabile.

 

Non ho avuto il coraggio di interrompere quella ricerca e me ne sono tornato a casa dai miei compagni di viaggio, nella terra di mezzo, in un mese di gennaio qualunque e ho lasciato che questi pensieri si perdessero tra le chiacchiere e il Chianti.

 

 

“Farewell, non pensarci e perdonami

se ti ho portato via un poco d’estate
con qualcosa di fragile come le storie passate”

 

Farewell, 1993. Francesco Guccini

 

“Fermati, ferma la macchina, un minuto solo!”

Tornando verso Milano, sul lungomare di Marina di Massa il giorno dopo ho intravisto l’uomo col cappuccio, dirigersi verso la spiaggia.

 

 

 

Sono sceso e vincendo il mio pudore, l’ho fermato.

“Mi scusi, glielo devo chiedere. Se no, non me lo perdonerò mai.”

 

Mi ha guardato negli occhi, diffidente.

“Mi dica”

 

“L’ho vista in questi giorni. L’ho osservata con attenzione. Mi perdoni se sono inopportuno, ma non posso non chiederle cosa cerca tutte le mattine, col suo metal detector?”

 

“Soldi. Cerco soldi. Ce n’è sempre un mucchio.”

 

“Perfetto… lo immaginavo.”

 

L’ho salutato e me ne sono tornato a casa.