Migration Movements Around the Mediterranean è un evento che si svolge in questi giorni a Tunisi. Dal 22 al 24 settembre i volontari del progetto Watch the Med-Alarmphone e il movimento Rosa Luxemburg Stiftung North Africa propongono a un pubblico di attivisti, di operatori sociali e di movimenti politici dei cicli di conferenze sulla situazione nel mar Mediterraneo, sulle politiche migratorie UE e degli stati nordafricani. Il primo giorno è dedicato alle morti in mare di chi emigra dall’Africa all’Europa e alla situazione del diritto d’asilo negli stati nordafricani.
Di Lorenzo Scalchi, inviato di Codici
Proviene dalla Costa d’Avorio e la maggior parte della sua migrazione verso la Germania l’ha passata tra Tunisia, Algeria e Marocco. Vivere come migrante sub-sahariano in questi stati è un’impresa tremenda. Se non si è abbastanza forti, fisicamente e psicologicamente, la repressione ti porta alla morte. Racconta migrazioni stagionali nel deserto, tra Marocco e Algeria, dove la situazione umanitaria dei migranti è molto critica e ci sono pochissime associazioni che vi operano. Anche se formalmente vale la Convenzione di Ginevra, le frontiere del Sahara non lasciano scampo: respingimento o detenzione. Cosa fare concretamente? Ora che vive a Berlino ha avuto la possibilità di riflettere, di fare delle ipotesi e di tornare in Nord Africa. La sua associazione si chiama Voix des Migrants e l’obiettivo è ritornare verso i paesi da dove molte migrazioni hanno origine e raccontare alle persone la verità, sul viaggio che stanno per cominciare. Il suo obiettivo è quasi utopico: cambiare la prospettiva dell’intervento sociale. Non sono più efficaci le manifestazioni di pochi movimenti politici contro l’Europa e contro quelli che lui chiama i «gendarmi dell’Europa», ossia i governi di Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto. Vede che l’unica strada percorribile è quella di portare la testimonianza della rabbia e del dolore nelle città e nei villaggi da dove le persone partono e dove le persone si fermano, prima di proseguire verso il mare.
Non è possibile affidare alla voce di Bubacar un messaggio di sintesi dei numerosi interventi di oggi. La sala conferenze dell’Hotel Africa, centro storico di Tunisi, è enorme e piena di persone. Il pubblico non fa domande agli esperti che parlano dal palco. Il pubblico si prende i suoi spazi, chiede parola, moltiplicando all’infinito il numero delle testimonianze e delle denunce. Qualche anno fa, afferma una delle organizzatrici dell’associazione Alarm Phone Tunisia, a un dibattito del genere avrebbero partecipato 40 persone. Oggi sono circa 200 i partecipanti. I protagonisti sono gli attivisti e le associazioni nordafricane e sub-sahariane: associazioni di migranti, di lavoratori e studenti che vivono come irregolari in Tunisia, come l’Union des Leaders Africaines o l’Association des Étudiants et Stagiaires Africaines en Tunisie. Sono presenti i rappresentanti delle famiglie tunisine che hanno perso le tracce dei propri cari dispersi in mare, come l’associazione Allmassir jeunes méditerranée o il progetto Missing at the Border.
Gli europei sembrano in pochi e sono silenziosi. Fanno la parte dei moderatori. L’Europa è lontanissima. E io provo un certo senso di imbarazzo. È come se mi vedessi allo specchio, con una brutta faccia.
Gli interventi danno per scontate le responsabilità dell’Unione Europea, la politica di respingimento, gli enormi flussi di denaro che gli stati membri distribuiscono agli stati nordafricani in cambio dell’aiuto nel controllo delle loro frontiere marittime e terrestri. Contro l’Europa è difficile agire. Ben più urgente è denunciare ciò che accade qui, nella sponda meridionale del Mediterraneo.
L’Egitto sta militarizzando le sue coste, incrementando le azioni di polizia contro le partenze di migranti irregolari verso il Mediterraneo; il Marocco ha costruito un muro al confine con l’Algeria, la Tunisia concede ai migranti sub-sahariani, studenti o lavoratori, un visto di una sola settimana e chi è trovato in condizione di illegalità deve pagare multe salatissime. Nonostante la Convenzione di Ginevra, le condizioni umanitarie dei richiedenti asilo e dei rifugiati in Egitto sono di detenzione per settimane nei Commissariati, mentre in Algeria, anche con un permesso di soggiorno, si è continuamente minacciati con sanzioni penali salatissime.
Che fare dunque? Le strategie sono limitate. Le risorse finanziare per costruire progetti di aiuto e di supporto alle vittime delle politiche migratorie sono molto scarse. Il rapporto tra le organizzazioni d’intevento sociale e le autorità pubbliche è da molti considerato come inesistente.
Tuttavia, la rabbia e la frustrazione espressa dalle storie ascoltate in questo primo giorno hanno dato lo stimolo ad alcune parole chiave che, anche se non sono state tradotte in proposte progettuali concrete, danno spazio a quel lavoro di costruzioni di reti che è forse il principale scopo dell’incontro: «dare voce ai testimoni», «politicizzare» la popolazione e «diffondere la consapevolezza dei problemi» anche negli stati africani da dove le persone decidono di partire.