Migration Movements Around the Mediterranean /2

Il secondo giorno della conferenza Migration Movements Around the Mediterranean, organizzata da Watch the Med-Alarmphone e da il Rosa Luxemburg Stiftung North Africa, è dedicato ai confini dell’Europa, alle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo centrale e alle cinture militari in Libia.

 di Lorenzo Scalchi, inviato di Codici

Nico Schachinger è un marinaio. Ha prestato servizio per alcune delle ong che svolgono le operazioni di soccorso nel Mediterraneo: Sea-Watch, Proactiva Open Arms e Jugend Rettet, organizzazione, quest’ultima, accusata dalle autorità italiane di aver concordato i soccorsi con gli scafisti. Nel 2015 vuole completare un reportage sulle rotte migratorie verso la Germania. È uno dei tanti europei impressioanti dal fenomeno. Lascia il giornalismo free-lance per tornare al suo vero lavoro, quello sui mari, da comandante di navi. Si mette in contatto con l’organizzazione tedesca Sea-Watch. La sua prima operazione di salvataggio è al largo di Lampedusa.

 

 

I ritmi sono elevatissimi. Sei settimane in mare, poi ritorno alla base: quattro giorni di riposo e di nuovo al largo. Con Sea-Watch si sposta a Lesbo, in Grecia. Nel gennaio 2016, dopo un paio di missioni, lascia l’ong tedesca per gli spagnoli di Proactiva, con cui lavora per più di un anno. Il lavoro prosegue come sempre: missioni, pause, missioni, pause. Talvolta le incombenze economiche lo portano a delle pause più lunghe. S’imbarca con delle compagnie private per qualche settimana di lavoro. L’attività volontaria con le ong ti copre le spese, ma non ti permette di guadagnare. Ritorna a Lesbo, finché non accade un naufragio: 23 persone, solo 2 sopravvissuti. Ha bisogno di una lunga pausa a casa, in Germania. Che difficile tornare a casa alla “vita di sempre”! Pensi sempre al tuo lavoro, e così facendo perdi molte delle vecchie amicizie: «Quando esci la sera non t’importa dei discorsi banali dei tuoi amici, hai una tale rabbia che introduci sempre discorsi politici, e appari talvolta come ridicolo».

La nuova missione è con Jugend Rettet: capitano di una delle rescue boat, le barche più piccole e più agili che hanno il compito di intercettare per prime i gommoni e eseguire le primissime operazioni di sicurezza. Siamo al largo della Libia, la base è a Malta. Il lavoro, afferma Nico, è sempre coordinato dal Comando generale delle Capitanerie di Porto di Roma (MRCC). Non si fa nulla senza coordinamento con le autorità. Eppure, aggiunge: «Abbiamo visto le relazioni con i membri della Guardia costiera italiana cambiare da un momento all’altro, in modo imprevedibile: a volte si collabora come se fossimo una squadra unita. A volte hai la sensazione che ti lascino apposta ad aspettare in mare aperto con decine di persone a bordo».

Lascia la missione di Jugend Rettet e la nave Iuventa poco prima delle famose fotografie, che ritraggono i membri della ong in contatto con un gruppo di libici, mentre scortano i gommoni pieni di persone. Qualsiasi organizzazione che svolga questo lavoro è potenzialmente in contatto con i libici, mi spiega Nico. Potenzialmente. Spesso chi riceve le chiamate dei migranti è il MCCR di Roma o Alarmphone. I libici intercettano i migranti in mare. Si dichiarano come “pescatori”. A volte è vero, lo sono, ma accade che siano anche trafficanti, pirati che saccheggiano i migranti dei propri averi, minacciandoli di scassinare il motore dell’imbarcazione.

Le predazione di ricchezza e la violenza nel Mediterraneo centrale hanno un terreno d’origine ben preciso. Dal 2013 la crisi economica libica causa un aumento dell’importanza del business delle armi. Controllare l’uso della forza diviene, perciò, un’impresa estremamente produttiva per molti imprenditori di violenza. Secondo la free-lance italiana Nancy Porsia, questo è lo scenario all’orgine di un punto fondamentale: il passaggio dal fenomeno dello smuggling a quello del trafficking. Dichiara Porsia: con lo smuggling i migranti erano liberi di fare quel che volevano. Se avevano i soldi, partivano. Altrimenti si contrattava, come un mercato, secondo le leggi della domanda e dell’offerta.

Questa pratica economica informale dura fino al biennio 2013-2015. A causa del collasso dell’economia libica, al business dello smuggling si associa quello delle armi e non è più la legge di mercato a dettare le regole delle partenze, ma la violenza, la minaccia di detenzione e di sfruttamento. Nel vacuum politico prendono potere i cartelli mafiosi, per nulla interessati alle condizioni di viaggio, a garantire una sorta di qualità del servizio con gli acquirenti. Infatti, è dal 2013, che cominciano i grandi disatri in mare. La guerra tra miliziani concentra, inoltre, l’80% delle attività del traffico in una striscia di costa lunga 50 km, nella zona di Sabrata, a est di Tripoli. Qui le milizie formano una sorta di cartello ed è qui che molti dei soldi europei finiscono perché è qui che la guardia costiera libica tratta con i cartelli. In questo business, dichiara Porsia, l’Italia e l’UE, che dichiarano di fermare i trafficanti, sono in realtà complici di un gioco molto complesso, che non coinvolge solo la Libia.

 

Cosa fai, dunque, se sei il capitano di una nave? Cosa faresti se ricevi una richiesta di intervento del genere? Non ti muovi perché ipotizzi di essere in contatto con dei criminali? E se fossero veramente dei pescatori? Ma che importa, ci sono delle persone che hanno bisogno di aiuto! E se questi gommoni fossero veramente ostaggio dei pirati libici? Che fai? Che si fa?

Questo è il contrasto che ha portato alla criminalizzazione dell’aiuto, commentano i rappresentanti di Medici Senza Frontiere, Sea-Watch e Jugend Rettet, nella seconda giornata di plenaria. Leggi dello Stato e leggi del mare. Una contraddizione, che s’inserisce nello scenario complesso delle politiche nazionali ed europee di esternalizzazione dei confini.

 

Qui la prima puntata

 

 

 

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