A cinque anni dal terremoto in Emilia, tra finanziamenti europei, lente ricostruzioni, difficoltà amministrative e burocratiche e voglia di normalità.
Testo di Sofia Nardacchione, disegni di Alessandro Donati
Sono passati più di cinque anni da quel maggio del 2012 in cui due scosse di terremoto a distanza di pochi giorni sconvolsero l’Emilia. A Bologna le scosse si sentirono forte: ci svegliarono la notte del 20 maggio e ci fecero uscire dagli edifici in cui eravamo il 29 maggio alle nove di mattina, ma non ci fu subito chiaro cosa era accaduto nei paesi intorno a noi. Ventisette vittime, interi paesi distrutti, tantissime persone senza casa, in particolare in provincia di Modena e di Bologna.
La scossa del 20 maggio alle 4 di notte fu la più forte: 5,9 di magnitudo, con epicentro a Finale Emilia; quella del 29 maggio alle 9 di mattina fu di magnitudo 5,6 e partì dalla zona tra Mirandola, Cavezzo, Medolla e San Felice sul Panaro.
A differenza dei grandi terremoti che hanno colpito l’Italia negli ultimi decenni, in Emilia – zona industrializzata – il terremoto ha colpito non solo la popolazione e gli edifici pubblici, ma ha anche messo in crisi l’intero sistema economico caratterizzato dalle tante aziende emiliane.
Dai Comuni – responsabili delle ricostruzioni private – sono stati concessi 2 miliardi e 118 milioni di contributi. Secondo il report redatto dalla Regione a cinque anni dal sisma (http://www.regione.emilia-romagna.it/terremoto/cinque-anni-di-ricostruzione/report-a-5-anni-dal-sisma), l’85% delle famiglie dei nuclei familiari che avevano avuto accesso alle misure di assistenza subito dopo il sisma sono rientrati nelle loro abitazioni o hanno trovato un altro alloggio e si legge inoltre che all’inizio del 2017 sono stati chiusi i prefabbricati utilizzati per l’emergenza.
Il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha affermato, a fine maggio, che si inizia a “intravedere il traguardo finale”. Ma a che punto è davvero la ricostruzione, cinque anni dopo?
La situazione cambia da provincia a provincia, da paese a paese, anche a seconda delle scelte fatte dalle diverse amministrazioni e molte sono le differenze. La desolazione di alcuni centri storici, quasi completamente disabitati, come quello di Mirandola; i cantieri che fasciano i principali edifici ancora da ricostruire; le chiese quasi tutte chiuse.
Ma ovviamente ci sono anche casi virtuosi, e situazioni in cui realmente si riesce a vedere la luce.
Crevalcore, il paese più colpito in provincia di Bologna, ha visto crollare i principali edifici pubblici, al centro della vita del paese: le scuole, il municipio, le porte di ingresso del paese – Porta Bologna e Porta Modena -, il teatro comunale. Tantissimi anche gli edifici privati colpiti, ma, grazie alla scelta di non prendere moduli abitativi provvisori, i lavori sono proceduti molto velocemente: “Nel 2012 sono stati dichiarati inagibili 800/1000 edifici – ci racconta Pietro Patalino, consigliere comunale della maggioranza. Fino ad agosto 2012 è rimasto aperto un campo sfollati nel centro sportivo e si è deciso di non prendere moduli abitativi provvisori per non prolungare i lavori; sono stati invece presi accordi con i comuni del distretto di Terre d’acqua per utilizzare le case sfitte, dando agli sfollati il contributo di autonoma sistemazione”.
Più lenta invece la ricostruzione degli edifici pubblici, che ha incontrato diversi intoppi: “A fine 2014 – continua Patalino – ci sono stati dei problemi con la centrale unica di committenza: prima i lavori venivano fatti tramite Cento e la Città metropolitana, da pochi mesi invece tramite la centrale di Terre d’acqua. Questo ha rallentato molto la ricostruzione”. Un altro problema è stato causato dal fallimento di Coop Costruzioni, che aveva vinto l’appalto per la ricostruzione, tra le altre cose, delle scuole elementari.
Il fallimento delle imprese di costruzioni non è un caso isolato a Crevalcore, ma frequente in tutti i paesi ed è causato dal fatto che molto spesso le imprese hanno vinto appalti che poi non sono riuscite a sostenere a livello economico, tenendo presente che i finanziamenti arrivano sempre dopo un tot di tempo.
E Crevalcore non è stata neanche immune da sospette infiltrazione della ‘ndrangheta nella ricostruzione: la SAGI Immobiliare – azienda che aveva vinto l’appalto per la costruzione di dodici villette, con alloggi ERP che il Comune avrebbe destinato all’emergenza degli sfollati – è stata bloccata dalla Prefettura di Bologna perché, come ha riportato l’Espresso, “sussiste il pericolo di tentativi di infiltrazione mafiosa”. La SAGI è stata così esclusa dalla white list e il Comune di Crevalcore si è costituito parte civile nel processo. I lavori della SAGI Immobiliare rientravano nei finanziamenti dei 25 milioni di euro che la Regione Emilia Romagna aveva stanziato per l’acquisto di alloggi per le famiglie con le case inagibili nei paesi più colpiti.
Un po’ differente la questione per i primi finanziamenti europei stanziati, che dovevano essere utilizzati entro la fine del 2012: questo ha provocato l’utilizzo di questi fondi per lavori che non erano collegati ai danni causati del terremoto. Una situazione che fa sicuramente riflettere, tenendo presente anche che l’Emilia Romagna era stata lodata per essere riuscita ad utilizzarli, a differenza di altri territori precedentemente.
Come Crevalcore, anche Finale Emilia, in provincia di Modena, ha deciso di non prendere i moduli abitativi provvisori, ma di affrontare l’emergenza in altro modo, per cercare di velocizzare la ricostruzione.
Così, il centro storico di Finale è vivo e aperto: “mentre a Mirandola – ci racconta Francesco Dondi, giornalista della Gazzetta di Modena – il centro storico è rimasto chiuso per un anno, a Finale Emilia è stata fatta la scelta di riaprirlo dopo una ventina di giorni e ristrutturarlo man mano. Grazie a questa scelta, nonostante molti edifici, come il municipio e le chiese, siano ancora inagibili, il centro è vivo”.
Ma i problemi non mancano, e sono due in particolare: Aemilia e cemento depotenziato.
Lo scandalo del cemento depotenziato è emerso grazie a un’inchiesta della Gazzetta di Modena: per la ricostruzione delle scuole medie C. Frassoni sono stati spesi 5 milioni di euro, ma non sono mai state aperte perché nelle fondamenta c’era del cemento con un livello tra il 20 e il 25 invece che 30: cemento scadente, con cui si è costruito grazie alla falsificazione dei certificati necessari, che avrebbe rappresentato un serio problema di sicurezza, ancora di più in una zona sismica.
Un caso emblematico di come, se si costruisce male, a rimetterci è la comunità tutta, sia a livello economico che, soprattutto, di sicurezza.
Per quanto riguarda Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana che ha toccato anche le infiltrazioni delle ‘ndrine emiliane nella ricostruzione, un nome in particolare si collega a Finale Emilia: quello di Giulio Gerrini, tecnico del comune per i lavori pubblici. A causa dei sospetti legami di Gerrini con la ‘ndrina emiliana al centro di Aemilia, il comune ha rischiato lo scioglimento.
Su 55 lavori pubblici, infatti, in 17 casi non sono stati effettuati i previsti controlli antimafia e dopo il sisma in almeno due casi i lavori sono stati affidati a ditte infiltrate dalla criminalità organizzata di tipo mafioso: questi alcuni dei dati contenuti nella relazione prefettizia redatta dopo uno studio della situazione di Finale Emilia. Ma, mentre l’opinione dei commissari era chiaramente quella di sciogliere il comune – “è necessario evitare che tale amministrazione rimanga permeabile all’influenza della criminalità organizzata” – dal Ministro dell’Interno è arrivata la decisione di evitare lo scioglimento, in quanto le situazioni opache e di mancato rispetto della legalità erano arrivate solo in un momento di emergenza come quello del terremoto, ma non riguardavano tutta l’amministrazione. All’interno del processo Aemilia, Gerrini è stato condannato a poco più di due anni per abuso d’ufficio continuato, ma è caduta l’accusa di aver favorito l’associazione mafiosa e non è stato interdetto dai pubblici uffici.
L’impresa avvantaggiata da Gerrini, nonostante l’esclusione dalla white list, è quella di Augusto Bianchini, la Bianchini Costruzioni srl di San Felice sul Panaro che, secondo l’accusa di Aemilia, avrebbe smaltito amianto – costoso da smaltire legalmente – nei cantieri per la ricostruzione del cimitero di San Felice sul Panaro, dei campi di accoglienza di San Biagio e Massa Finalese e delle scuole di Concordia sul Secchia, Mirandola e Finale. Per quanto riguarda queste ultime, i finanziamenti rientrano nei 56 milioni di euro stanziati del commissario per la ricostruzione Vasco Errani a luglio 2012 per ricostruire le scuole entro settembre dello stesso anno: tempi record che hanno favorito le infiltrazioni e l’illegalità. Più in generale, le infiltrazioni mafiose nella ricostruzione sono avvenute nella filiera dei subappalti, dove i controlli non erano così pressanti come nella catena degli appalti, in particolare per quanto riguarda le imprese private.
E’ nella filiera dei subappalti quindi che si sono potute aggirare le norme positive che in regione erano state adottate.
Mafie a parte, nella ricostruzione c’è chi ha cercato di lucrare anche in altro modo, facendo ricostruire con i fondi per il terremoto edifici che già da prima erano distrutti e inutilizzati: questo è un problema che caratterizza tutte le zone, ma in particolare a Cento è stato approfondito grazie al “Comitato Verifica Ricostruzione”. Secondo il CVR, “il problema sta nel fatto che nei primi interventi, anni 2012/2013, le ricostruzioni rispettavano la normativa, ma con il passare del tempo si è visto che i controlli erano quasi inesistenti (-5/7%) a sorteggio e, come sempre accade, si è iniziato ad esagerare nelle richieste dei contributi”. Così si vedono “ruderi o fienili mezzi crollati da anni trasformarsi in lussuosi fabbricati antisismici”. Secondo il comitato i contributi di dubbia liceità sono circa 80 milioni: ora starà alle procure stabilire quali sono effettivamente i numeri di questo fenomeno.
Insomma, la situazione cinque anni dopo è tutt’altro che semplice e lineare: le difficoltà sono tante, a livello economico, burocratico e amministrativo.
Mirandola, epicentro della seconda forte scossa, è ancora una città fantasma, dove si fa fatica persino a trovare un posto in cui mangiare e dove le uniche persone che popolano il centro sono gli operai che lavorano nei cantieri. Una situazione impressionante, che fa riflettere sulla scelta di spopolare il centro e di delocalizzare completamente le attività commerciali, che, ancora dopo cinque anni, non sono rientrate. Nel bar poco fuori il centro storico, a differenza degli altri paesi, si fa fatica a parlare di quanto è accaduto e tanto è ancora il disagio che si percepisce. Completamente differente il clima che abbiamo percepito a Cavezzo, un altro dei paesi maggiormente colpiti, dove invece la positività è di molto maggiore.
Questo sicuramente è dovuto al fatto che qui non fossero presenti edifici pubblici fondamentali anche per i territori circostanti, come invece è accaduto ad esempio per quanto riguarda il polo scolastico di Mirandola.
Giuseppe Pedrielli, preside della scuola di Mirandola fino a pochi mesi prima del terremoto, ci ha raccontato che il crollo delle strutture scolastiche è stato dovuto a un errore di valutazione: “le strutture erano state fatte in modo da resistere alla forma di terremoto che si immaginava potesse colpire questa zona, purtroppo però il terremoto del 2012 è stato diverso e quindi tutte le strutture sono crollate. In particolare i crolli hanno riguardato quegli edifici costruiti come padiglioni industriali, tra cui i laboratori della nostra scuola, che non erano legati e sono crollati. Le valutazioni erano quindi sbagliate, ma non si può parlare di errori e di responsabilità specifiche.
Fortunatamente però dopo la prima scossa la scuola è stata chiusa e quando la scossa più forte ha colpito Mirandola il 29 maggio non c’era nessuno negli edifici scolastici”.
In generale, tanto è stato fatto ma tanto è sicuramente ancora da fare. Anche perché quando il disagio permane per così tanti anni il rischio è anche quello che le colpe ricadano su chi colpe non ne ha: un commerciante di una delle vie principali di Cento, il cui centro è rimasto chiuso al traffico per otto mesi, ci ha raccontato che nel paese gli sfollati sono ancora molti e ha affermato che non è concepibile che “i terremotati vivano in case di lamiera e gli immigrati negli hotel con il wi-fi”. Sono frasi che tante volte abbiamo sentito, ma ancora di più in zone che hanno vissuto momenti difficili, quando il disagio provoca la ricerca di colpevoli più attenta ancora dovrebbe essere la risposta delle amministrazioni e della politica tutta.